Teatro Milano
4:00 am, 24 Aprile 24 calendario

Lorenzo Gleijeses: «Il mio viaggio attraverso Kafka con Barba&Varley»

Di: Patrizia Pertuso
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Il filosofo Paul Virilio critica l’odierna idea di viaggio che ha azzerato i concetti di esplorazione e di percorso in favore dell’idea di uno spostamento rapido, quasi istantaneo. Conia il concetto di “dromoscopia”, un neologismo che significa “visione in corsa”, nella quale regna un continuo senso di spaesamento. Proprio da qui sono partiti Eugenio Barba e Julia Varley per mettere in scena “Una giornata qualunque del danzatore Gregorio Samsa” con Lorenzo Gleijeses, fino a domani al Teatro Franco Parenti di Milano.

Per questo spettacolo di cui lei è protagonista Eugenio Barba e Julia Varley hanno firmato la loro prima regia al di fuori dell’Odin Teatret. Come è stato lavorare con loro?

«È stato ed è ancora un viaggio incredibile. Il percorso è iniziato nel 2015 quando abbiamo cominciato a pensare al progetto. Poi, le prove e, nel 2019, il debutto. Più passa il tempo, più tutti e tre esaminiamo e affrontiamo ogni sfaccettatura, ogni fase dell’evoluzione di questo spettacolo. Lavorare con Eugenio è come essere in un film sia per gli aneddoti che ha vissuto e che racconta sia per la sua forza, la sua non convenzionalità tanto nella vita che nel lavoro. A livello umano, poi, è una persona unica. E lo stesso vale per Julia».

Passiamo al titolo: Gregorio Samsa è il protagonista delle “Metamorfosi” di Kafka, il termine danzatore fa più pensare ad un “danzattore”, e poi quella “giornata qualunque” che immerge il tutto in una piatta quotidianità. Perché questo titolo che raggruppa tutte questi aspetti?

«È nato dalla mente di Eugenio e dal suo ingegno. Il primo giorno gli ho fatto vedere degli oggetti coreografici che avevo creato insieme a Michele Di Stefano, Leone d’argento alla Biennale di Venezia Danza. Michele era una persona con la quale volevo lavorare da tempo anche se la sua direzione, avendo a che fare con coreografi, è diversa rispetto a quella di Eugenio».

Cosa intende per “oggetti coreografici”?

«Mini coreografie, come le ha chiamate Di Stefano, che si ripetono in loop per tutto lo spettacolo. Eugenio, vedendole, mi ha detto che quello che gli trasmettevano era un forte senso di ripetitività, l’ossessività del movimento di un insetto. Così mi ha suggerito di lavorare sul Gregorio Samsa di Kafka. Poi ha scelto il titolo e ha deciso che il protagonista sarebbe stato un danzatore con lo stesso nome del personaggio kafkiano. Lo spettacolo inizia con il nostro Gregorio che prova la coreografia che debutterà dopo due giorni. Ma il coreografo si lamenta perché non vi rintraccia il livello di concentrazione giusto a solo due giorni dal debutto. Così Gregorio torna a casa e inizia a svolgere tutte le attività casalinghe come parlare al telefono, farsi la doccia o guardare la tv, senza mai mettere da parte le coreografie. Praticamente Eugenio mi ha proposto non solo il titolo, ma anche la scaletta. Abbiamo provato per tre anni e siamo arrivati allo spettacolo che aveva esattamente quel titolo e quella struttura che lui aveva immaginato il primo giorno di lavoro. Naturalmente in questi tre anni di prove abbiamo avuto delle derive: ci siamo allontanati, a volte, dall’idea iniziale e poi ci siamo ritornati. Eugenio è un visionario e ha delle doti uniche, un’esperienza irripetibile. Lo spettacolo che abbiamo sviluppato è uno spettacolo in cui la ripetizione del gesto non è un difetto o una zavorra, come le regole del teatro tradizionale prescrivono».

Quando parla di ripetizione ossessiva del gesto mi viene in mente il teatro danza di Pina Bausch…

«Potrebbe esserci anche quello. In realtà il nostro parametro è stato qualcosa che ha a che fare con la ripetizione di un attore. Avremmo potuto fare la stessa cosa anche con dei testi. Più che richiamarmi un esempio artistico, lo spettacolo mi fa pensare alla mia vita: io sono così. Quando sto per debuttare sembro una macchina: compio delle azioni quotidiane come cucinare, prepararmi, fare la doccia, ripetendo il testo in modo che mi entri totalmente dentro. Gregorio fa la stessa cosa. Ma lui spinge talmente tanto l’acceleratore su questa volontà di migliorarsi e su questa ripetizione ossessiva che, a un certo punto, perde i parametri per distinguere tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra la vita vera e quella immaginaria, tra il teatro e la realtà».

C’è una ripetizione scaramantica che mette in atto prima ad andare in scena?

«No perché sono scaramantico nella vita e non relego questa “attività” solo al momento che precede l’andare in scena».

Mi sta dicendo che vive una vita all’insegna della scaramanzia?

«Diciamo che ho delle “attenzioni” a certe cose che evito di fare. Non so nemmeno se siano razionali o sfocino in discorsi energetici».

Un esempio?

«Una delle mie scaramanzie è non spoilerare quali sono le mie scaramanzie. Me le tengo per me, sono riti personali».

Gregorio Samsa kafkiano, Gregorio Samsa danzatore e Lorenzo Gleijeses: quali sono i punti di contatto e quelli di distanza fra i tre?

«Sia io che Gregorio dello spettacolo nutriamo molta attenzione verso il lavoro e puntiamo al migliorarci. Per quanto riguarda il personaggio di Kafka ha sicuramente in comune con me e con il Gregorio dello spettacolo una umanità che lo porta a guardare il mondo esterno non riuscendo a comprendere la disumanità che c’è fuori. In comune tutti e tre abbiamo, invece, la sensibilità e lo stupore nel vedere un mondo che si sta spingendo ben oltre i confini del buon senso».

Secondo lei qual è la grande metamorfosi del teatro, ammesso che ce ne sia stata, ce ne sia o ce ne sarà una?

«Credo che il teatro da quando è nato sia in continua metamorfosi. Ne ha subite di tutti i colori… Credo sia uno degli ambiti non solo artistici ma anche antropologici che ha subìto più evoluzioni: più della poesia, del romanzo, del cinema. Il teatro più di 4000 anni fa – quando si svolgeva nei grandi anfiteatri, la gente andava lì, ci mangiava e ci dormiva – aveva un ruolo politico. Oggi andiamo in scena anche per una persona sola nel pubblico. Quindi sarebbe riduttivo parlare di una metamorfosi unica perché il teatro è una metamorfosi continua».

Qual è la metamorfosi che si aspetta nell’ambito teatrale?

«Mi aspetto che ora ci sia un rifiorire del teatro visto quello che si sta facendo con l’intelligenza artificiale: si producono film senza aver bisogno di attori, senza manodopera umana. In un momento in cui non si riesce a capire se un prodotto è opera di un essere umano o di una macchina, poter andare in teatro e avere a che fare con il corpo, con le cellule, con il sudore di una persona e avere la certezza che quella persona che si sta muovendo davanti a noi è reale, che non è il riflesso di una macchina, credo che potrà offrire grande centralità al teatro».

Lei, tempo fa, ha detto: «La nostra metamorfosi è il frutto che la quotidianità ci crea ogni giorno». La pensa ancora così?

«È assolutamente così per quanto riguarda il nostro Gregorio che non è la messa in scena del racconto di Kafka, di una persona che si ritrova scarafaggio. Lo spettacolo tocca in modo marginale quel testo. È un lavoro che va oltre: è immaginare la metamorfosi di una persona che arriva a un certo punto a uno stato animale di esistenza. Questo stato può essere causato da un grande dolore o dal sentirsi inappropriato nel proprio lavoro o, ancora, da mille altre ragioni. Può essere reso scenicamente come una persona che inizia a traballare, ad avere dei movimenti che sembrano quelli di un insetto. Quella stessa persona potrebbe anche subìre l’effetto inverso, diventare catatonico entrando in uno stato vegetativo. Lo spaesamento del mio personaggio lo porta a compiere movimenti frammentati e ripetitivi che ricordano i movimenti di un insetto. Ma non ci soffermiamo su una metamorfosi intesa come trasformazione».

Mi ci soffermo io e le faccio un’altra domanda. Se lei, Lorenzo Gleijeses, fosse oggetto di una metamorfosi che cosa vorrebbe diventare?

«Vorrei acquisire quello che non ho nell’ambito di una metamorfosi positiva e costruttiva. Vorrei essere più saggio, più distaccato, meno istintivo e passionale quando vedo cose che non riesco ad accettare a livello politico e sociale. Vorrei riuscire ad elevarmi verso uno stato di serenità».

Un asceta, praticamente…
«No, non necessariamente. Vorrei vivere la mia vita come la vivo oggi, con la quantità di cose che faccio oggi, ma con un distacco maggiore che mi permetta di starci dentro e di godermele di più».

La mia domanda si riferiva a una metamorfosi fisica. Samsa di Kafka diventa uno scarafaggio. Se lei potesse cambiare corpo cosa vorrebbe diventare?

«Devo dire la verità: sto bene come sto, grazie».

PATRIZIA PERTUSO

24 Aprile 2024 ( modificato il 23 Aprile 2024 | 16:48 )
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