Teatro
10:00 am, 6 Ottobre 22 calendario

Eugenio Barba: «Il teatro è stato il mio rifugio dal razzismo»

Di: Patrizia Pertuso
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TEATRO Lo dice senza mezzi termini Eugenio Barba, in tournée in Italia e all’estero con il suo spettacolo di addio al teatro, Tebe ai tempi della febbre gialla: «Non avevo per niente voglia di essere artista io, ma il teatro è stato un rifugio come lo è stato per tutti i compagni dell’Odin».

Un rifugio da cosa?

«Sono un emigrante e ho vissuto il razzismo in maniera marcata, per molti anni, in Norvegia, quando lavoravo come meccanico in un’officina, ma soprattutto quando, per due anni, sono stato marinaio. Queste reazioni che le persone hanno avuto verso di me, il diverso, mi hanno rifiutato qualsiasi dignità e umanità: io ero sporco italiano, spaghetti, negro… Allora ho pensato che il teatro potesse essere una maschera dietro la quale nascondermi perché come artista si veniva trattato in modo diversa. Ho fatto teatro per obliterare letteralmente la mia identità etnica. E come me, lo hanno fatto molte persone che hanno lavorato all’Odin: Iben (Nagel Rasmussen, ndr.)  era una tossicodipendente che stava letteralmente sul bordo del suicidio; ha visto un nostro spettacolo e ha capito che era quello che voleva fare. È venuta, è riuscita a resistere perché era debole e fiaccata dalle droghe e poi ha iniziato a lavorare con noi. Molti altri della prima generazione dell’Odin erano persone rifiutate dalle scuole teatrali, esclusi esattamente come lo ero io: escluso dalla possibilità di lavorare in un teatro istituzionale perché non avevo esperienza ed ero straniero. L’Odin Teatret nasce da qui: da un’affinità o una concordanza di una condizione esistenziale che unisce queste persone di origini diverse, tutte, comunque, escluse. Ed è insieme che abbiamo cominciato a costruire il sapere e a conquistare la nostra differenza».

Di sapere Barba e il suo Odin ne hanno conquistato parecchio, tanto da essere stati un faro nel panorama teatrale dagli anni Sessanta in poi. Con loro, Jerzy Grotowski, il Living Theatre e Peter Brook.

Barba, in un’intervista lei ha detto: “Dopo i grandi, Stanislavskj, Craig, Appia e via dicendo, a parte Peter Brook, Grotowski e il Living Theatre, abbiamo solo danzato su una musica che avevano inventato”. Qual è stata la musica che ha inventato Peter Brook?

«Una musica estremamente raffinata e importante perché Brook non è apparentemente un regista ribelle. Lui lavora sempre all’interno di un circuito istituzionale, ma il modo come lo fa cambia tutto: i criteri, i tempi, direi anche la metafisica o la visione di cosa è il teatro o cosa deve essere sono assolutamente diversi. Peter Brook è un giovane regista che riscuote immediatamente un grande successo e comincia a fare una serie di esperimenti già all’inizio degli anni Sessanta, molto prima del Living Theatre, all’interno del teatro istituzionale. Quando apre la famosa stagione del Teatro della Crudeltà nel 1967 a Londra innesca una bomba: nella capitale del teatro più tradizionale e istituzionale che esista, Brook invita esponenti dell’esperienza americana e lo stesso Jerzy Grotowski, giovanissimo e sconosciuto. Peter è stato fondamentale per aiutarlo fino alla fine. Poi, il suo libro, Lo spazio vuoto, ha nutrito tutti, anche le persone che si muovevano nell’ambito di un teatro tradizionale».

Adesso che ha deciso di non dedicarsi più alla creazione e realizzazione di spettacoli teatrali, che farà? So che un suo vecchio sogno è quello di imparare a suonare il violino…

«Si, sarebbe bello imparare a suonarlo, ma le dita ora sono un po’ rigide a causa dell’età… Adesso è veramente arrivato il momento di scoprire una forma di piacere di cui nessun altro può godere se non quando si arriva a un’età avanzata: il piacere dell’inutilità della conoscenza, di mantenere vivo il gusto, la curiosità, di studiare, leggere, apprendere e, nello stesso tempo, sapere che ormai non serve più a niente perché il tuo tempo è limitato».

Scegliere Tebe al tempo della febbre gialla, uno spettacolo che prende spunto dal mito di Edipo e che rappresenta una summa del suo teatro, è un modo per chiudere il cerchio?

«Questo spettacolo lo si immagina come qualcosa di “originario” perché gli studiosi di teatro affermano che tutto è iniziato con il teatro greco. Ma, in realtà, di quel teatro non sappiamo quasi nulla: la maggior parte delle opere scritte sono andate perdute, ignoriamo come fosse la recitazione, il coro, le danze, la musica. Credo che le vere origini del teatro siano piuttosto nel XVI secolo quando si formano le prime compagnie come quella che nasce a Padova nel 1545. Noi le conosciamo come Commedia dell’Arte, ma rappresentano il primo vero passo verso il teatro. In quelle compagnie ci sono donne mezze prostitute – le attrici della Commedia dell’Arte le chiamavano le “prostitute oneste” -, soldati di ventura che non volevano più combattere e si univano agli attori girovaghi, figli di nobili non primogeniti quindi esclusi dall’eredità. Tutta questa umanità per sfuggire alle costrizioni della società, dei potenti e della chiesa trova rifugio nel teatro, l’unico luogo dove le donne possono fare quello che vogliono e gli omosessuali possono mostrare le loro tendenze. Giustamente sia il potere che la religione nutrivano una profonda diffidenza verso queste compagnie, vere enclave di comportamenti totalmente opposti a quelli “prescritti” dalla società».

Barba, lei ha sempre parlato di tecniche pre-espressive che in qualche modo riescono a superare la cultura d’appartenenza del singolo. C’è qualcosa, allora, che precede la cultura?

«Se io cresco in una famiglia di inglesi che ha mantenuto la sua cultura, nelle mie tecniche del corpo, nella mentalità, nel mio modo di vestirmi e via dicendo sarò inglese. Quella che noi chiamiamo identità di un individuo è privata, assorbita e incorporata attraverso ciò che abbiamo vissuto soprattutto con la nostra famiglia e la scuola. Quando si va a lavorare come artigiano si trovano altri criteri: si apprende una cultura del lavoro e si acquisisce un “saper fare” identico ad altri. Quando un chirurgo deve operare – può essere italiano, mongolo o di altri paesi – lo farà seguendo le stesse direttive: a livello culturale sono medici diversi, ma nella cultura del lavoro sono uguali. Tutte le persone di teatro hanno in comune la preoccupazione di come mantenere l’attenzione dello spettatore durante lo spettacolo. Se vado in un bar e mi siedo ad osservare le persone che passano, dopo un po’ mi annoio perché vedo sempre le stesse cose, nulla di interessante. In teatro anche se mi raccontano una storia sentimentale e banale, invece, mantengo l’attenzione perché gli attori hanno incorporato un saper fare, una conoscenza tacita che, esattamente come un artigiano, un muratore o un calzolaio, si può apprendere solo facendo».

Su cosa si basa l’apprendistato di un attore secondo le pratiche di Eugenio Barba?

«Sul fare non sul parlare o sul comunicare concetti e teorie. Tutti gli attori mettono in evidenza la presenza, il qui ed ora, e il modo in cui si compone l’azione. Nella storia del teatro si parlò molto fin dal 700 di interpretazione attoriale. Ci sono state due linee fondamentali: la prima quella che è guidata dal comportamento dell’attore per cui bisogna avere talento, bisogna lasciar esplodere i sentimenti perché sono questi che guidano il comportamento di chi recita; la seconda è quella in cui quello stesso comportamento viene scomposto, come se fosse una specie di algebra dinamica di tensioni, un modo per “de-familiarizzarlo” di fronte allo spettatore».

Torniamo al suo spettacolo. La scelta del greco antico rientra in una delle sue tecniche pre-espressive in riferimento ad una comunanza evocativa?

«Sì, la pre-espressività ha a che vedere con l’effetto della presenza, non del significato. Quando una persona impara la danza, che sia greca, africana o cinese, sta lavorando a livello pre-espressivo: lavora in modo da colpire sensorialmente il sistema nervoso e la percezione dello spettatore, ma soprattutto per creare un effetto di straniamento in modo che la percezione di chi assiste reagisca ad un nuovo modo di muoversi».

Ci spieghi meglio…

«Perché andiamo a vedere uno spettacolo di danza che non racconta niente a livello verbale? Perché all’interno di quella che noi chiamiamo coreografia si mettono insieme una serie di stimoli in una combinazione dinamica di posizioni, forme, tensioni che agiscono sul senso cinestetico dello spettatore. Si tratta della capacità di attivare una sensibilità che accolga le tensioni dell’attore».

Queste tensioni nascono da ciò che lei chiama “sats”?

«Il sats è il momento in cui parte una tensione. Qualsiasi movimento si faccia, noi possiamo scomporlo in diversi momenti: a livello anatomico sono coinvolti i muscoli del corpo ed anche l’energia, la forza che si usa per metterli in atto. Una semplice azione, come quella di prendere la mano dell’altro, parte da un’estensione del braccio, passa per l’apertura della mano e arriva al contatto con l’altra per poi, per esempio, stringerla. Conoscendo queste frazioni minime alla base di ogni movimento, si può montare su queste un’azione, ma si può anche fingere di stringere la mano per poi torcerla, ingannando la percezione di chi guarda. L’attore dell’Odin lavora così: in modo subliminale fa pensare a chi assiste di stare per compiere un gesto realizzandone poi, invece, un altro. Tutto questo è di una banalità ma anche di un’artificialità estreme, ma lo spettatore non se ne deve accorgere perché la sua attenzione possa essere costantemente catturata».

Come indicherebbe il processo di coinvolgimento dello spettatore?

«Come un’empatia cinestetica: l’attore fa qualcosa e, in base alla comune consapevolezza tra lui e chi assiste, un determinato movimento viene codificato in un certo modo. Questo aspetto costruisce lo scheletro dello spettacolo. Anche nel teatro tradizionale qualsiasi attore che si mette davanti ad uno spettatore è costretto a passare per questo processo. Lo fa in diversi modi. In alcuni casi, specialmente nel teatro attuale, il testo diventa il veicolo fondamentale dell’interpretazione. Ma non sempre è così. Non dobbiamo dimenticare che il teatro ha tre linguaggi diversi su cui operare: quello verbale, con il testo, l’aspetto concettuale, razionale; poi l’aspetto sonoro, la musicalità, al punto che c’è una forma di spettacolo che utilizza solo questo, l’opera: si può andare a sentire Wagner, non capir niente del testo, ma godere dell’aspetto sonoro. Il terzo linguaggio del teatro passa attraverso i dinamismi, i movimenti, i gesti: parliamo di danza. Quando si va a teatro l’attore parla, racconta, cerca di interpretare dei testi, ma non danza, non canta, cosa che, per esempio, in tutte le tradizioni asiatiche, ma anche in quella europea fino alla fine dell’800, esisteva».

In questo spettacolo c’è un vero e proprio tripudio del giallo. Il giallo è il colore del sole, dell’oro, di qualcosa che brilla, solitamente legato ad aspetti positivi. Ma la “febbre gialla” non è poi così positiva: sembra più una dicotomia vita/morte…

«È uno dei trucchi o degli stratagemmi del regista. Comincio a trattare la storia di questa famiglia greca, a Tebe, dove è presente la peste. Però volevo capire come poteva essere rappresentato un grande rigurgito di vitalità inserendo quella città dove ormai è tutto avvenuto – la battaglia, la guerra fratricida, la peste stessa – in un contesto. Quando lavoro come regista ho una storia davanti e mi diventa essenziale crearle un contesto che contenga storie diverse e divergenti. Quel rigurgito di vitalità l’ho trovato intorno al 1850 in Francia con la rivoluzione pittorica che avviene con gli Impressionisti. Da quel momento in poi, a livello industriale, si possono produrre colori che si inseriscono nei tubetti: prima il pittore doveva prepararseli da solo ed era complicatissimo ritrarre un panorama all’esterno. Da quegli anni cambia tutto, tanto che si ha un enorme fioritura di paesaggi. Le industrie producono due colori: il violetto e il giallo. Gli Impressionisti usano tanto di quel violetto che all’inizio furono chiamati “violettisti”. La scelta del giallo per questo spettacolo è nata da un’esperienza che ho avuto a Parigi dove ho visto un’installazione video immersiva su Klimt: ho trovato fantastico quel tripudio di giallo e ho deciso che nell’ultimo spettacolo avrei voluto godermelo. Poiché non uso la tecnologia ho dovuto inventarmi qualche altra cosa. La febbre gialla per me è un’esplosione che avviene durante lo spettacolo».

Una curiosità: nell’Odin Teatret sono mai sorti dei malintesi, dei fraintendimenti causati dalla compresenza di culture diverse?

«No, perché ci sono regole artigianali da seguire fin da quando si entra in sala. Si deve essere precisi: non si parla di cose banali, della famiglia, del prezzo del pesce… Ci si siede e ci si deve concentrare. L’immagine che meglio rappresenta il gruppo dell’Odin è quella di un gruppo di alpinisti: sono tutti legati alla stessa corda, ciascuno con la propria individualità, ma facendo ben attenzione a dove si mettono i piedi perché se uno solo li mette male precipita e trasporta con sé tutti gli altri. L’attore deve essere fondamentalmente individualista, ma deve sempre sapere di essere legato agli altri».

Qual è il ruolo del regista?

«Tutti gli attori accettano che ci sia una specie di garante degli spettatori che sono io: rappresento il primo spettatore dell’azione teatrale. Inizialmente, lascio che tutti volino in ogni direzione; poi, arriva il momento in cui devo ordinare e creare qualcosa che stabilisca connessioni con chi li guarda. La figura più importante in teatro non è né il regista né l’attore, è lo spettatore: ciò che conta è la sua esperienza durante lo spettacolo e quello che, da quell’esperienza, si porterà a casa: dimenticherà lo spettacolo, ma porterà con sé altro. Se io chiedo a qualcuno di un mio spettacolo, quella persona mi risponderà “bello”, ma forse non ricorderà tutti i particolari. È in quel “bello” che io costruisco e compongo. La parola “bello” include quello che è conoscenza tacita, che non si può raccontare perché quando la si racconta, la si banalizza».

Info su: https://odinteatret.dk/calendar/tebe-al-tempo-della-febbre-gialla-a-lecce/

PATRIZIA PERTUSO

6 Ottobre 2022 ( modificato il 5 Ottobre 2022 | 17:47 )
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