Cinema
5:00 am, 11 Aprile 24 calendario

«Il cinema e il teatro sono armi contro la disabilità e il disagio»

Di: Patrizia Pertuso
condividi

Ha cominciato scardinando i dettami accademici teatrali. Poi è passato al cinema. Adesso fa a pezzi la fruizione cinematografica tradizione per creare un Festival diffuso che, come luoghi deputati, sceglie un centro copisteria, un centro analisi o una librerie. Dario D’Ambrosi e il suo Teatro Patologico presentano il Festival Internazionale del Cinema Patologico che, fino al 13 aprile, si svolge a Roma e online.

Prima di tutto, cos’è il Festival del Cinema Patologico?

«Il Festival del cinema patologico, che è arrivato alla 15esima edizione, è partito quasi per gioco puntando verso un’apertura maggiore nei confronti dei ragazzi disabili. Far conoscere una forma d’arte come il cinema per me era importante anche perché venivo da lì, da “La Passione di Cristo”, da “Romanzo Criminale”. Mi interessava che i miei ragazzi conoscessero anche questa forma d’arte oltre al teatro. Così abbiamo creato questo Festival chiedendo a chi avesse film, documentari o corti sulla disabilità di mandarceli. Negli anni il Festival è diventato una realtà mondiale: quest’anno sono arrivati 1.783 film inediti da tutto il mondo che non trattano solo la disabilità come malattia, ma anche il disagio in generale, tra cui il bullismo o i femminicidi. Insomma, questo Festival è diventato un punto di riferimento per coloro che vogliono fare cinema e non solo: è un punto fermo anche per il mondo sanitario».

Quanti sono i film selezionati per il concorso partendo da quei 1.783 proposti?

«In tutto sono 20, 16 corti e 4 lungometraggi».

Quest’anno, per la prima volta, si tratta di un Festival “diffuso”…

La novità di quest’anno è che vengono proiettati in luoghi insoliti, non in sale cinematografiche o teatri, ma in posti come un centro copisteria, un centro analisi o in libreria. È una formula nuova e interessante. Molta gente ci scrive dicendoci di trovarsi in una certa zona, ci chiede qual è il punto più vicino per poter vedere un film e noi gli indichiamo il luogo dove possono assistere gratuitamente alla proiezione. Si tratta di un nuovo modo di distribuzione che un domani potranno adottare anche i grandi distributori. Continuiamo a dire che la gente non va più al cinema, che ormai con la televisione e con Internet le sale sono vuote: così ho pensato di portare il cinema nei luoghi dove la gente va tutti i giorni e dove vive quotidianamente questi disagi».

Portare questi temi nei luoghi non deputati alla proiezione di film significa anche valorizzarne il contenuto, immagino.

«È proprio questo il punto chiave. Ieri ho assistito, dopo la proiezione di alcuni corti in un bar a Ponte Milvio, (Roma, ndr) alla discussione che si è aperta alla fine del film: molta gente non sapeva che io fossi il direttore e si è messa a commentare il contenuto di quanto aveva appena visto. Mi è sembrato incredibile che in un bar, dove di solito si parla solo di calcio, persone comuni ragionassero su temi sociali importanti».

Un Festival diffuso per arrivare dritto al cuore della gente?

«Esattamente. Quando si va al cinema ci si prepara prima: si sa che film si va a vedere, si conosce un po’ la trama, si sa un po’ tutto: quello che manca è lo svolgimento della pellicola. Ma quando ci si trova in un bar e, mentre si sta bevendo un cappuccino parte la proiezione, quelle immagini entrano direttamente nell’anima dello spettatore. Si mette in atto una sorta di effetto di spiazzamento che porta con sé un abbassamento delle difese di chi guarda mentre le sensazioni vengono lasciate fluire liberamente».

È anche un po’ un ritorno al primo periodo della televisione quando non si possedeva l’apparecchio in casa e si andava tutti al bar a vedere la prima serata in tv…

«Mi ricordo che, quando ero piccolo – vengo da una famiglia molto modesta – non avevamo la tv in casa. Quando camminavamo sui marciapiedi di San Giuliano Milanese e sentivamo il rumore della tv accesa cercavamo di vederla e molto spesso ci cacciavano via come se fosse uno “spettacolo” privato, non accessibile agli altri».

Dal passato al futuro. C’è anche una parte del Festival che si svolge completamente online…

«Sì, abbiamo messo online i film in concorso per far sì che possano essere visti e votati da tutti non solo dagli italiani perché le opere provengono da tutte le parti del mondo. Stiamo registrando numerosissimi accessi dall’estero. L’online è stato sempre molto importante per ampliare la platea del Festival. Certo, durante i due anni di Covid è stato fondamentale. Ma risulta importantissimo anche adesso. I film che partecipano al Festival vengono dall’Uruguay, Iran, Argentina, Spagna, Sud Africa e, ovviamente, anche dall’Italia. Allargare la platea ci è sembrato fondamentale».

Fino a quando sarà possibile vedere i film in concorso e votarli?

«Le votazioni online resteranno aperte fino a venerdì e dalla stessa pagina si potranno vedere i corti e i lungometraggi in concorso».

Mi ha parlato, oltre che di disabilità, anche di disagio facendo riferimento al bullismo. Secondo lei è un “disagio” che con il teatro e il cinema si può almeno ridurre?

«Ne sono assolutamente convinto. Le dico una cosa che può sembrare un’utopia: quando proposi alla ministra Giannini – adesso stiamo parlando di qualche anno fa, ne sono passati altre 4 o 5 di ministre – di inserire nelle scuole elementari il teatro come materia obbligatoria, aprimmo una grande discussione: io sostenevo che il teatro, soprattutto gli esercizi che facciamo noi con i nostri ragazzi possono risolvere il problema del bullismo. Oggi i ragazzi non si guardano più negli occhi perché non sono più capaci di farlo. Invece, guardarsi negli occhi ed esprimere il proprio desiderio e la propria opinione per un giovane sono le basi per una formazione sia a livello emotivo che di crescita individuale. Ormai i bambini non guardano negli occhi neppure i genitori. L’unico rapporto che hanno è con il cellulare: a me sconvolge andare al ristorante e vedere questi bambini che sono al tavolo con la famiglia e gli occhi fissi sul telefonino: neanche guardano cosa c’è nel piatto, mangiano come degli automi. Ritornare al teatro, alle sue basi antropologiche, attraverso quegli esercizi in cui, per esempio, due persone si guardano negli occhi e l’una descrive l’altra, come è fatta, come sono i colori degli occhi, le sopracciglia, le ciglia o i capelli, diventa un modo per guardarci dentro e anche per guardare il mondo esterno».

Disabilità e bullismo: secondo la sua esperienza sono spesso accomunati?

«Assolutamente sì perché ne ho prova con i miei ragazzi. Nelle improvvisazioni che facciamo diverse volte viene fuori l’aver subito atti di bullismo quando erano ragazzini soprattutto per la loro diversità, per la loro disabilità».

Che cos’è per lei la diversità?

«Considero i miei ragazzi come il sale della vita, senza di loro non potremmo avere neanche la normalità. La diversità è l’altra faccia della medaglia di quello che noi consideriamo normale, è un modo che dà la possibilità ai cosiddetti “normali” di aprire delle strade che senza il disabile non aprirebbe mai. Capire dove inizi la normalità e dove finisca la diversità è un’operazione estremamente difficile».

Il 13 aprile al Teatro Patologico, dalle 20, si terrà la cerimonia di premiazione del Festival: parteciperà Leonardo Pieraccioni. Come è nato questo sodalizio?

«Lui ha girato al Teatro Patologico “Io e Marilyn”. È stato quasi una settimana da noi ed è diventato di casa: anche i ragazzi si sono affezionati a lui, e lui a loro. L’ho inseguito per qualche anno perché aveva molti impegni e stavolta ci ha dato la sua disponibilità. È un personaggio talmente divertente e spiritoso che sono sicuro offrirà una serata straordinaria».

Tradimento o separazione consensuale da Domenico Iannacone che negli ultimi l’ha accompagnata ovunque?

«Nessuna delle due! Lui sta lavorando come un matto, visto che stiamo parlando di matti…».

In un domani ipotetico che sarà il Teatro Patologico?

«Bella domanda. Spero di poter formare gente che possa portare avanti questo progetto. E mi auguro che si riesca a realizzare il mio sogno: far entrare il Teatro Patologico in tutte le facoltà universitarie italiane per seminare quello che abbiamo seminato a Roma e che poi viene esportato in tutto il mondo. Da anni, collaboriamo con l’Università di Tor Vergata con un corso di tre anni alla fine del quale si diventa operatore teatrale. Le lezioni si svolgono qui, negli spazi del Patologico, in via Cassia. Speriamo che quest’anno la ministra riconosca ufficialmente anche il nostro corso di Teatro Integrato delle Emozioni, quello che porto avanti con i miei ragazzi, disabili e non, poco importa».

PATRIZIA PERTUSO

11 Aprile 2024 ( modificato il 10 Aprile 2024 | 18:54 )
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il giornale
Più letto del mondo