Teatro Milano
10:13 am, 24 Maggio 23 calendario

La Medea del Teatro Patologico azzera l’alterità

Di: Patrizia Pertuso
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TEATRO Per la Medea del Teatro Patologico, di scena fino a domani sera al Teatro Franco Parenti, voglio cominciare dalla fine. Dai quei lunghissimi applausi di una sala gremita di pubblico in piedi di fronte al lavoro della compagnia diretta da Dario D’Ambrosi. Applausi più che dovuti per una messinscena che riesce perfettamente a cogliere lo spirito del Tragico e ad esprimerlo attraverso un concerto di corpi e voci.

La scena “povera” della Medea di D’Ambrosi

Gli attori si muovono sul palco all’interno di una scena volutamente “povera”, fatta semplicemente di bastoni e lenzuola bianche: questi oggetti offrono ancor più risalto alla dinamica dei corpi che, nel caso del Coro, si fondono e confondono affidandosi all’uso del greco antico che si fa musica. La stessa Medea – la brava Almerica Schiavo – affida il suo dolore a un canto che segue precise regole metriche. La scelta di D’Ambrosi di ricorrere a una lingua antica, non comprensibile oggi, rafforza la presenza dei corpi, dei loro spasimi e dei loro sussurri.

In questo quadro drammatico, sprazzi di lucida follia o forse – più semplicemente – di pathos: ecco, dunque, che la decisione della protagonista di uccidere entrambi i figli si alimenta attraverso una danza che somiglia tanto alla taranta, in cui percussioni impazzite – suonate dal vivo, in scena – si impossessano e trascinano il corpo di Medea in un vortice di movimenti scomposti che le permettono di esprimere le emozioni e i sentimenti più reconditi.

Il Coro: presenza fisica e onirica

Il Coro, formato dagli attori del Teatro Patologico, è un elemento fondamentale: presenza fisica prima, si trasforma nei fantasmi di un Giasone (Paolo Vaselli) che, quasi fosse stato catapultato in un universo onirico dall’elenco di rinunce che Medea ha dovuto compiere per amarlo, viene fagocitato da una calca di membra e trascinato fuori dalla scena: una sorta di rito dionisiaco in cui quel Coro diventa profezia delle Baccanti.

E, ancora. Quando Giasone cerca i suoi figli, appena uccisi da Medea, lo stesso Coro si fonde nuovamente in un corpo unico: si compatta nei lunghi abbracci di chi sa e non ha le parole per codificare verbalmente ciò che è successo.

La messinscena travalica il confine tra attori e pubblico

In questa Medea le parole non servono: è uno spettacolo che scorre su un crinale emozionale senza mai scadere nel gigionesco; è un pugno allo stomaco la cui forza la si sente a lungo; è un Teatro finalmente vivo che offre tutta l’energia che serve per smuovere gli animi di un pubblico troppo spesso assente. Un pubblico che entra di fatto nell’azione grazie alla scelta registica di D’Ambrosi di accendere le luci di sala e far entrare la protagonista da metà platea.

Le mille facce degli oggetti scenici

Poi, ci sono gli oggetti scenici: bastoni e lenzuola. I primi si fanno porta, confine, carro funebre. Le seconde diventano pareti bianche e tappeti insanguinati: su loro, sfilano Giasone e Glauce (Marina Starace), Creonte (lo stesso Dario D’Ambrosi) e la sua corte nel giorno della cerimonia nuziale; avvolti nelle spire di quei teli impregnati di sangue, vengono trascinati fuori scena agonizzanti. Rispettando in pieno lo spirito della tragedia greca, anche l’uccisione da parte di Medea dei due figli non avviene sul palco: un altro lenzuolo, che stavolta è il fondale, svela grazie a un controluce perfettamente bilanciato, il momento del duplice assassinio.

Il Teatro Patologico è un lungo abbraccio

Tra questi sussurri che via via diventano suoni ossessivi di mani sul palco e di tamburi impazziti, il Teatro Patologico lascia senza fiato. Anche dopo la fine dello spettacolo, quando D’Ambrosi presenta i “suoi ragazzi”: qualcuno ci tiene a dire che proprio oggi è il suo compleanno, qualcun altro semplicemente ringrazia, tutti si fanno intorno al loro Maestro e si perdono in lunghi abbracci.

Il Teatro Patologico è proprio questo: un lungo, caldo abbraccio per chi, affetto da disabilità fisiche e psichiche, attraverso una rappresentazione riesce a trovare se stesso, ma anche, e soprattutto per noi, pubblico, che sempre più spesso dimentichiamo che “l’altro” non è necessariamente “diverso”: “l’altro” alberga in tutti noi e la “diversità” è un grande bluff. Questa Medea ne è la dimostrazione.

PATRIZIA PERTUSO

 

 

24 Maggio 2023
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