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10:42 am, 27 Febbraio 24 calendario

“Storie di donne” all’uncinetto tra recluse e imprenditrici

Di: Patrizia Pertuso
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Si chiamano Agata, Anna, Annapaola, Barbara, Cinzia, Flora, Loretta, Maria, Moldavia, Nadia, Roberta e Santina. Sono donne. Cameriere, badanti, imprenditrici e detenute. Nel segno dell’inclusività hanno realizzato la loro “tela del tempo” per la mostra Storie di donne che dal 5 al 23 marzo sarà ospitata nello spazio della stazione di Porta Venezia del Passante Ferroviario. L’esposizione, nata da un progetto di Nadia Nespoli, si colloca significativamente a pochi giorni dalla ricorrenza dell’otto marzo e presenta 12 grandi opere intrecciate all’uncinetto da altrettante autrici. A raccontare Storie di donne è la stessa Nadia Nespoli.«Nel 2012 con l’Accademia di Brera sono entrata a Bollate e nel settimo reparto maschile ho fondato il laboratorio Artemisia – spiega l’artista – dove si lavora sulla pittura e sul disegno con gruppi più o meno numerosi. Da quell’anno vado in carcere tutte le settimane».

Come è nata l’idea della tela?

«Nel 2018 ho deciso di crearmi un supporto, una tela fatta a mano con l’uncinetto, a punto alto; l’ho fissata su un telaio e l’ho appesa in studio. Da lì è partito il mio progetto che si chiama Crochet. Poi, prima del Covid, ho portato questo progetto a Bollate chiedendo di poterlo svolgere al femminile e di poter far lavorare le donne con l’uncinetto per creare altre tele: hanno partecipato una decina di detenute. Quel progetto è stato esposto nel 2022 al San Fedele: si intitolava Offerte di tempo perché vedeva esposte queste “tele del tempo” realizzate in carcere. Per farne una ci vogliono tra le 100 e le 150 ore».

Come si sono poste le donne coinvolte nei confronti di questo lavoro?

«E’ stato difficile a volte farle lavorare: due donne mi hanno mollato perché l’uncinetto poteva sembrare noioso. Eppure, messaggio artistico a parte, la realizzazione di una tela aveva l’obiettivo di far capire che mentre si lavorava, si poteva pensare, guardarsi dentro: era un vero e proprio progetto meditativo non solo per le donne detenute. Ho insegnato a lavorare all’uncinetto anche agli uomini del settimo reparto che parteciperanno sicuramente: stanno già producendo un lavoro collettivo per smantellare il pregiudizio che il lavoro all’uncinetto sia prettamente femminile. Con la loro tela manderanno un messaggio contro la violenza sulle donne».

Nella mostra Storia di donne non vengono esposti solo i lavori delle recluse a Bollate.

«No. Nel contempo, avevo coinvolto anche un centro sociale, una dirigente d’azienda, un’agente immobiliare, insomma diverse tipologie di donne i cui lavori dovevano essere esposti accanto a quelli delle detenute. Erano già pronti nel 2022 ma allo Spazio Aperto San Fedele hanno deciso di mettere in mostra solo i lavori realizzati dalle donne a Bollate. Molti parlano di inclusione, ma la vera inclusione è far esporre in una mostra le opere di una detenuta vicino a quella di una badante polacca, di una cameriera e di una dirigente. Questo era il mio progetto principale che ora riusciamo ad esporre. Adesso, ci sono tutte le tele».

Ci racconta come è andata a livello pratico? Ha portato cotone e uncinetti in carcere?

«Certo. Le donne che erano a Bollate lavoravano sia con me che da sole, nelle loro celle. Ho consegnato sia alle donne fuori che alle donne in carcere i gomitoli di cotone dicendo loro di non disfare mai il lavoro e di riannodare i due gomitoli con un nodo che sarebbe poi stato sul dritto della tela in modo che potesse essere visibile: è un riannodare e ricominciare per tutte le donne».

Cosa c’è dietro la prima tela che lei ha realizzato?

«E’ bianca perché i miei lavori sono tutti sul bianco. La necessità da cui è nata è stata quella di crearmi un supporto da sola, di fare da me, di non cercare la carta, non cercare il legno, ma di realizzare un supporto completamente mio. Da lì ho capito che poteva essere una performance che coinvolgesse più persone. Il messaggio racchiuso in queste tele è quello di andare avanti, di ricominciare, di non guardarsi indietro, di non disfare quello che siamo state, ma di cercare in tutti i modi di raggiungere una certa indipendenza, di essere noi».

Tra quel “noi” a cui si riferisce Nadia Nespoli, c’è Agata che per la mostra ha realizzato una tela arancione.

Agata, come ha vissuto questo progetto?

«“La tela del tempo” prende il nome dal tempo trascorso in carcere da un gruppo di donne che ogni mercoledì pomeriggio si riunivano sistematicamente in un laboratorio all’interno di Bollate per realizzare un lavoro all’uncinetto. La volontaria Nadia Nespoli ci ha assegnato dei gomitoli e abbiamo avuto la possibilità di scegliere il colore che preferivamo: il mio è l’arancio. La scelta del colore nasceva dalla possibilità di identificare la nostra personalità, il nostro carattere o qualche ricordo particolare della nostra vita e delle nostre esperienze. Una delle signore scelse il blu perché era quello preferito dalla sua bambina»

C’è un motivo particolare riguardo la sua preferenza per l’arancione?

«Mia nonna mi diceva sempre che era quello che, indossato, metteva in risalto i miei occhi. Nadia ci portò tanti gomitoli quanti erano necessari per la realizzazione del manufatto. Doveva essere lineare, a maglia alta, e i presupposti per la sua realizzazione erano due: non disfare mai il lavoro fatto anche se riportava errori o nodi proprio perché quei nodi evidenziavano che, in quella giornata o in quell’arco di tempo, si stava attraversando una disarmonia o un malessere e quindi anche la tela doveva riportare i momenti negativi della tua giornata e del tuo percorso. Le aggiunte dei gomitoli, poi, dovevano essere ben visibili».

Quindi questo manufatto ha un lato simbolico, quasi una trasposizione del suo vissuto sulla tela…

«Sicuramente, ma non soltanto. L’obiettivo e lo scopo non doveva essere solo la realizzazione di qualcosa; quel qualcosa doveva identificare la tua persona e, soprattutto, il tuo stato d’animo. Il concetto era non soltanto far muovere le mani ma anche, contemporaneamente, raccontare e raccontarsi. Infatti, tra il gruppo che ha partecipato al progetto è nata un’unione che c’è ancora adesso, all’esterno: la maggior parte di noi ci vediamo e ci sentiamo ancora, tra impegni di lavoro. Ci ha consentito di trascorrere delle ore in armonia».

Sapevate che i vostri lavori sarebbero stati raccolti per una mostra?

«No, Nadia decise solo alla fine del percorso. Non ce lo disse subito per lasciarci libere nella realizzazione delle tele. Lo sapemmo in corso d’opera. Chi tra noi è riuscita a farla più lunga ha vissuto a Bollate più a lungo; ce ne sono alcune più piccole e altre volutamente lasciate a metà perché le autrici sono uscite prima di finirle».

Come è per una donna la vita in carcere?

«Dipende tutto dal carattere e dalla predisposizione: la vita è triste, è una vita piatta, ma se si parte dal presupposto che quel tempo è un tempo che appartiene comunque alla tua vita e non lo devi sprecare, allora devi far sì che quel tempo diventi prezioso. Quando io mi sono costituita e sono entrata in carcere ho pensato di far finta di essere in collegio dove sono stata ai tempi dell’Università. Ho detto a me stessa che c’erano le stesse regole e che gli agenti di polizia penitenziaria erano come le suore. Così mi sono immedesimata in un contesto che già conoscevo e l’ho vissuto come se avessi dovuto trascorrere una parte della mia vita, il più breve possibile, lì dentro. Ho cercato sempre di trarre delle opportunità da quel periodo e di mettere in pratica il concetto di resilienza: in carcere ho seguito tutti i corsi possibili e immaginabili ed ero quella che coinvolgeva le altre. Sono di carattere molto estroversa e cerco nel mio piccolo di non far pesare mai nulla. Mi piaceva coinvolgere le altre persone, ho sempre detto loro di non preoccuparsi: “Partecipiamo, poi il resto lo facciamo in gruppo, tutte insieme”. Ho seguito tanti progetti: video, letteratura, lettura e la stessa “tela del tempo”».

Immagino che la vita in carcere non sia solo questo…

«No, non lo è. I momenti bui ci sono: il colloquio mancato, l’avvocato che viene e ti dà una notizia inaspettata, le telefonate che vorresti fare alla famiglia perché ti senti sola ma non puoi perché non sono permesse, l’avere un incontro programmato con le volontarie che poi, per qualche motivo, non possono venire. In carcere ti manca tutto l’essenziale. Se, per esempio, una donna volesse fare un regalo ad un’altra per il suo compleanno, non può. A quel punto ci si inventa di fare una torta. Abbiamo realizzato un progetto molto bello, “Cucinare al fresco”: è un libro con le nostre ricette, quelle che si possono realizzare con i pochi strumenti che si possono usare in carcere. E questo progetto sta andando avanti ancora oggi nel carcere di Como. A Natale e a Pasqua abbiamo realizzato queste ricette e le abbiamo potute condividere con tante altre compagne».

Mi sembra di capire che ci sia una forte rete sociale fra le donne…

«Certo. Anche in carcere si creano dei gruppi come nella normale vita sociale e, esattamente come fuori, non si può andare d’accordo con tutti: ciascuna sceglie la propria cerchia di amiche con le quali si condividono più interessi. Nei momenti bui, quelli in cui la solitudine si fa sentire di più, si concretizza una fortissima rete sociale: si avverte molto di più all’interno che all’esterno, perché all’interno si è talmente concentrati su chi ha un problema o chi lo sta attraversando che si fa squadra, ci si fa forza insieme. Si passa dal semplice sostegno morale a quello più materiale: all’interno del carcere non c’è la circolarità del denaro; chi lavora ha più possibilità come chi può ricevere dall’esterno bonifici bancari. Ma c’è anche chi non lavora e non ha familiari: se serve qualcosa ci si aiuta. Lo si fa per solidarietà, e anche per evitare malintesi con qualche persona che ha bisogno di qualcosa che non può avere. Le donne in carcere sono soprattutto e nella maggior parte dei casi recluse e mamme: si portano dietro situazioni emotive molto complesse tanto è vero che un colloquio è sempre più straziante per una donna rispetto a un uomo soprattutto quando quel colloquio è con i propri bambini. A volte la sentenza prevede un divieto di vederli oppure l’affidamento a persone completamente estranee. Nella peggiore delle ipotesi, quando i figli vengono affidati alle comunità, l’iter burocratico per i colloqui con l’esterno è molto più complesso: possono passare tempi molto lunghi, anche mesi, perché una mamma possa rivedere il figlio. Da uno studio che ho svolto e che poi è diventata la mia tesi di laurea in Statale ho scoperto che la maggior parte delle pene detentive femminili sono dovute a reati che vedono il coinvolgimento delle donne con un uomo, che sia marito, compagno o fidanzato. Dietro alla donna nel 96% delle sentenze che la portano alla condanna c’è sempre la presenza e la manipolazione di un uomo: nel 98% dei casi quest’uomo è una persona all’interno del nucleo familiare della donna».

Ci potrebbe illustrare meglio questo studio?

«Quando ero in articolo 21 (l’articolo 21 prevede che di giorno le persone possono uscire dal carcere per andare a lavorare e la sera devono rientrare, ndr) sono uscita da Bollate con un progetto dell’Università Statale: ero iscritta a Filosofia. L’Università in collaborazione con il Celav (Centro di mediazione al lavoro, ndr) e il Comune di Milano ha stanziato 5.000 € sotto forma di borsa lavoro da concedere a un articolo 21. L’obiettivo era realizzare una tesi sperimentale sulla presenza delle cooperative nell’economia carceraria in Lombardia e poi sulla presenza delle donne detenute nelle carceri. Ho fatto ricerca all’interno di tutte le carceri della Lombardia dove è presente un reparto femminile: Vigevano, Bollate, San Vittore, Icam, Como, Bergamo, Brescia. Da qui è emerso il dato di cui le parlavo prima».

Questo dato trova riscontro anche tra le donne che espongono i loro lavori nella mostra che si inaugurerà il 5 marzo?

«Tutte le donne che partecipano alla mostra con i loro lavori erano dentro per colpa del marito, del convivente o del fidanzato. La scusante che queste donne si danno è che si sono rese conto troppo tardi che stava succedendo qualcosa di molto grave. E’ una situazione che sfugge di mano perché si cerca sempre di trovare in se stesse una giustificazione nei confronti di questo vincolo di amore che poi amore non è: è un amore malato. Si cerca di tenere in piedi un matrimonio che in realtà non esiste più, di mantenere viva una famiglia; tante volte per amore dei figli si fa finta di non vedere e di non sentire, ma quando poi si arriva al dunque è troppo tardi e ad aspettare queste donne c’è la sentenza definitiva».

Secondo lei come si guarisce da questi amori malati?

«Credo che l’amore abbia bisogno di una relazione che si sviluppi nel segno del rispetto e di reciproco amore, non può esserci un sentimento unilaterale. Da un amore malato se ne esce solo quando si riesce a parlarne, quando si ha la consapevolezza di quello che è successo e soprattutto non si porta rancore e rabbia, perché se non si hanno dentro questi sentimenti cattivi, significa che si è “guarite”: quando si ha dentro la voglia di vendetta, si spreca il proprio tempo oltre a gran parte dell’energia e della propria vita. Già ci sono stati portati via degli anni perché li abbiamo vissuti male. Non si può continuare a perder tempo. E poi, per fare cosa? Per vendicarsi di una persona che non ci meritava prima e che non ci merita nemmeno adesso?»

Nessuna donna prova rabbia nei confronti di chi le ha causato tanto male?

«Sinceramente mi è capitato di assistere a discorsi fra donne e alcune sì, provano ancora rabbia perché non tutte hanno la volontà di voler mettere un punto. Ma si ritrovano a stare ancora più male e a prendere gli antidepressivi in carcere pur di non affrontare il problema. Ho sempre parlato con loro a cuore aperto dicendo che è sempre meglio affrontare il problema: una brutta verità è meglio di una bella bugia».

PATRIZIA PERTUSO

27 Febbraio 2024
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