Teatro Milano
11:05 am, 16 Maggio 23 calendario

D’Ambrosi: «Da giovane odiavo il teatro, ora non ne posso fare a meno»

Di: Patrizia Pertuso
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TEATRO Arriva per la prima volta a Milano, il 23, 24 e 25 maggio al Franco Parenti, Medea nella versione di Dario D’Ambrosi e del suo Teatro Patologico (stasera sarà a Le Iene su Italia1, in prima serata). A seguire, per festeggiare i 40 anni della compagnia formata da persone con disabilità fisiche e psichiche, sarà di scena anche Tutti non ci sono, in cui D’Ambrosi racconta la sua storia. Medea andrà in scena alle 20, Tutti non ci sono alle 21.30.

 D’Ambrosi perché ha scelto Medea?

«Medea nasce da un’idea dei ragazzi. Ogni anno decidiamo di allestire uno spettacolo, ma non lo decido io, lo decidono loro. Lo abbiamo presentato in mezzo mondo, anzi nei quattro continenti – Giappone, Africa, Johannesburg, America e in Europa, a Londra e a Bruxelles davanti al Parlamento europeo (prima della tournée mondiale andò in scena a Roma al Teatro Argentina e al Teatro Quirino nel 2015, ndr.) – e la sua storia coincideva con la vicenda di Cogne, di quella madre che aveva ucciso il figlio. Una delle ragazze down della compagnia propose di mettere in scena Medea perché rintracciava una somiglianza con quanto era accaduto a Cogne. La sua idea mi ha spiazzato completamente. L’ho proposta agli altri ed erano tutti d’accordo. Fin dal suo debutto è stato uno spettacolo che è cresciuto sempre di più nel senso che abbiamo fatto tante repliche ovunque: in Giappone il pubblico era tutto in piedi ad applaudire per minuti e minuti. A volte pensavo che ci stessero prendendo in giro perché non la smettevano più di applaudire…».

Come si può riportare in scena oggi un dramma greco?

«In modo molto autentico e forte perché i ragazzi vivono quotidianamente i drammi che accadono nella realtà come quel 13enne che a Belgrado, ha ucciso i suoi compagni a scuola . Sono fatti di cronaca che i miei ragazzi con una sensibilità assolutamente particolare vivono in modo più diretto, più forte, più coinvolgente. Quando si affrontano le tragedie lo spettacolo diventa molto partecipato da parte loro».

Dietro la scelta di cosa mettere in scena c’è sempre un fatto di cronaca?

«Sì, perché noi affrontiamo le loro difficoltà e i loro problemi di tutti i giorni e della quotidianità fanno parte anche questi fatti di cronaca. Li affrontiamo teatralmente o, anche, solo come momento di confronto in una discussione».

Ci racconta chi sono quelli che lei chiama “i miei ragazzi”?

«Li chiamo i miei mattacchioni. Sono ragazzi con varie patologie: down, autistici, bipolari, fortemente depressi… Sono persone che attraverso il teatro sono riuscite letteralmente a salvarsi la vita più che a intraprendere una carriera teatrale: lo dichiarano loro stessi. Sono ragazzi che teatralmente offrono emozioni fortissime. Dico sempre che chi assiste a uno spettacolo del Teatro Patologico assiste a un evento perché ogni sera ognuno di loro vive delle emozioni assolutamente diverse da altri momenti e non si sa mai che tipo di emozione la messinscena riuscirà a far arrivare al pubblico. Ci sono delle sere in cui, come dice un nostro ragazzo autistico, il Teatro Patologico è più forte di una bomba atomica: noi non ammazziamo la gente, ma riusciamo a fargli cambiare le idee. Lo abbiamo riscontrato in ogni luogo dove siamo stati: all’Onu, alle Nazioni Unite, davanti a 500 ambasciatori erano tutti in piedi perché non volevano credere di aver assistito a uno spettacolo in cui ragazzi con patologie molto gravi recitavano in greco antico. È stato un momento magico. Questi sono i miei ragazzi, che mi sorprendono ogni volta e non mi deludono mai. Io con loro mi incazzo molto quando assisto alle prove; li tratto come attori veri e propri, mi incazzo tantissimo ma quando se lo meritano faccio loro i miei complimenti come è successo all’Onu o a Bruxelles, davanti al Parlamento europeo: in sale assolutamente anti-teatrali, hanno messo in scena l’opera in modo magistrale grazie alla loro bravura».

Gli spettacoli sono diversi ogni sera, quindi….

«Sì, c’è un testo che noi seguiamo, ma quello che succede non lo sappiamo. Per esempio, all’Argentina di Roma un ragazzo autistico ha avuto una crisi epilettica in scena: è caduto come un sacco di patate, ma nessuno ha sospeso lo spettacolo. Tutto è cambiato per far rianimare il giovane: il coro, piano piano, ha girato intorno a lui con movimenti che sembravano far parte dello spettacolo, ma che in realtà servivano a dar tempo al ragazzo a tornare in sé. Le loro patologie ti possono sorprendere ovunque, anche quando sono sul palco per cui non si sa mai cosa può succedere».

Parliamo di movimenti. Come si pone il suo lavoro sulla sua compagnia rispetto ai due poli rappresentati dal linguaggio verbale e dal linguaggio del corpo?

«La domanda è molto importante. Quando i miei mattacchioni hanno delle crisi schizofreniche,  d’ansia o attacchi di panico facciamo un lavoro che parte da una relazione tra il corpo e il respiro. Un lavoro molto meticoloso, molto importante, anzi fondamentale. Per esempio, nell’esercizio che io chiamo “delle tre sedie” i ragazzi devono manifestare l’emozione del corpo in tre diverse situazioni in base alla sedia su cui scelgono di sedersi. Il rapporto con il corpo, quindi, è molto forte: facciamo un lavoro nella relazione che intercorre tra corpo e spazio e viceversa. Poi c’è il lavoro sulla voce, ma viene in un secondo momento. Il lavoro del corpo è il percorso per riconoscere le loro emozioni, le ansie, le sofferenze. Attraverso esercizi teatrali si riescono a gestire le loro patologie».

Questi esercizi teatrali che immagino facciano parte di un training che rapporto hanno, se ce l’hanno, con l’antropologia teatrale di Eugenio Barba?

«Un rapporto fortissimo. Lavoriamo sul corpo e sulla relazione che si instaura tra il corpo e altri elementi che possono essere sassi, legno ma anche la stessa pelle degli attori quando si toccano tra loro: in quei momenti si scoprono le loro paure e le loro timidezze. Si tratta di un lavoro primordiale che riporta alle origini. Gli esercizi che ho creato con oltre 1.700 ragazzi disabili in 40 anni di teatro – le tre sedie, lo specchio, i quattro angoli teatrali – servono a far riconoscere loro la propria sofferenza e a riuscire a spiegare come gestire la patologia di cui soffrono. È un lavoro diverso da quello degli psichiatri che tendono a far stare tranquilli i ragazzi affinché non diano in escandescenze. I miei esercizi, invece, puntano all’espressione dei momenti di crisi perché è attraverso questi stessi esercizi che i ragazzi possono imparare a gestire la crisi».

So che lei ci tiene molto a prendere le distanze dalle tecniche usate nello psicodramma…

«Assolutamente, perché quelle tecniche riportano alla relazione che si instaura durante le sedute e non è quello che a me interessa. In America ho partecipato a molte sedute di psicodramma, ma non era quello che mi interessava: a me interessa lo spappolamento del corpo, la violenza dell’espressione, del suono, della voce, della vita. È una specie di lavoro animalesco, poco terapeutico anche se possiamo definirlo come teatro terapia perché ci sono ragazzi disabili, ma è un percorso che si compie sull’uso del movimento e sull’espressione del corpo. Il lavoro con gli psicodrammi è molto lontano dal nostro».

Un po’ Artaud un po’ Bataille…

Esattamente. Sono due esempi che ci portiamo dietro individuando in loro i nostri maestri».

Torniamo a Medea: che spettacolo sarà?

«Una Medea assolutamente originale. Ci sarà il suo dramma, ma sarà circondato dal coro che porta avanti la storia tra lei e Giasone che è interpretato da una persona affetta da una forte depressione. Io, invece, sarò Creonte.  Il coro, composto da otto ragazzi disabili, porterà avanti il dramma anche scenograficamente grazie all’uso di bastoni e alla musica dal vivo: offriranno una forza incredibile ai diversi passaggi del dramma, fin da quando Creonte dirà a Medea di andarsene e lei chiederà un giorno in più che le sarà concesso. Quel giorno in più le consentirà di uccidere Creonte e sua figlia Glauce nel giorno del matrimonio con Giasone. Rispetto al testo originale di Euripide in cui l’uccisione viene raccontata dalla nutrice, nella nostra versione a narrarla sarà il coro che racconterà come vengono ammazzati entrambi con il veleno. Il coro porterà avanti la tragedia fino alla fine quando Medea dichiarerà a Giasone di aver ucciso le due figlie».

Nel suo spettacolo usa il greco antico così come Eugenio Barba lo aveva usato nel suo ultimo spettacolo, Tebe ai tempi della peste. In questo caso, la scelta era dovuta a una questione di sonorità del linguaggio: vale anche per lei?

«Mi ha interessato molto. Ho trovato molto bello il fatto che il coro con il greco antico riuscisse a formare un corpo unico: annuncia le diverse fasi della tragedia in greco antico, nascosto dietro grandi lenzuoli che poi, scenograficamente, circoscrivono le diverse stanze in cui si svolgono gli incontri tra Medea e Creonte e tra Medea e Giasone. In questo caso anche il linguaggio diventa un atto emotivo, non solo letterario, come nel caso della vendetta di Medea: il coro la inciterà a compiere il gesto estremo, a uccidere i suoi due figli perché Giasone ha deciso di andare a nozze con Glauce; diventerà lui stesso una forza corporea omogenea distaccata dai personaggi. Diventerà, di volta in volta, il Male, il Pentimento, la Violenza, la Vendetta».

Domanda secca: cos’è per lei e per i suoi mattacchioni il teatro? Rappresentazione, azione, linguaggio, movimento, corpo, scontro….

«Quando ero giovanissimo giocavo a pallone e per 4 anni sono stato nel Milan. Per me, allora, il teatro era una rottura di cazzo strepitosa. Quando sentivo la parola teatro mi veniva da vomitare. Adesso, il teatro che faccio con i ragazzi per me è paragonabile a un orgasmo. A volte penso di lasciar perdere tutto, dopo qualche difficoltà. Ma non ce la faccio. Le loro patologie messe insieme arrivano come un fulmine al cuore ogni volta che li vedo in scena. Mi è capitato di lavorare con altre compagnie stabili, ma dopo un po’, francamente, mi veniva la depressione e le ho lasciate».

In scena al Franco Parenti, oltre a Medea, porta anche “Tutti non ci sono”: lo spettacolo, che ha lo stesso titolo del libro edito da Lecommari, riprende le parole scritte sul muro del manicomio di Aversa: “Tutti non ci sono (in manicomio), tutti non lo sono (davvero matti)”. D’Ambrosi, chi è il “matto”?

«Come dicevo, in 40 anni di lavoro ho incontrato più di 1.700 ragazzi con disabilità fisiche e psichiche e devo ammettere che è difficile dire chi è veramente matto e chi è veramente sano. Penso però che se quella persona che ha ucciso la psichiatra avesse avuto possibilità valide e alternative reali le cose sarebbero potute andare diversamente. La legge 180 è stata sicuramente una legge all’avanguardia, ma non ha offerto un progetto alternativo al manicomio e a chi soffre. Credo che il Teatro Patologico possa essere considerato come quella possibilità non data dalla Basaglia. Nessuno dei miei ragazzi, anche con patologie molto gravi, ha mai manifestato un seppur minimo cenno di aggressività: fuori picchiavano i compagni, ammazzavano di botte le madri, ma in teatro tutta questa violenza non è mai entrata. Le famiglie delle persone che hanno lavorato con me mi hanno detto che non sapevano se il loro figlio sarebbe mai diventato un attore di successo, ma sapevano con certezza che tutta la violenza che albergava in lui non c’era più: affermazioni che facevano luce anche sulla situazione in cui vivevano queste famiglie, anche loro abbandonate a se stesse. Il Teatro Patologico ha offerto loro una nuova possibilità di vita».

Secondo lei è applicabile anche in un regime carcerario?

«Assolutamente sì. Il lavoro di Armando Punzo a Volterra ne è un esempio anche se lui punta più sulla drammaturgia che sulle emozioni. Mi hanno chiesto di portare il mio metodo nelle carceri, non l’ho fatto per impossibilità di conciliare tutti gli impegni ma sono certo che aiuterebbe molto i detenuti. L’ho sempre detto anche a Iannacone».

So che lei ha un rapporto molto intenso con Domenico Iannacone. Come è nato?

«Anni fa, venne da me una persona di Rai3 e mi disse che Domenico Iannacone voleva fare un documentario sul Teatro Patologico. Ho pensato subito: “chi cazzo è? Non voglio nessuno. Non voglio che vengano qui con le telecamere a riprendere quello che facciamo”. Questi arrivano, fanno i servizi, li mandano in onda e spariscono. Il mio assistente, invece, ha insistito nel farmelo conoscere e io ho ceduto. Da quel momento non ci siamo più lasciati. Adesso ci sentiamo una decina di volte al giorno. Ha fatto un ottimo lavoro con noi. Ha vissuto emotivamente il nostro teatro assistendo alle prove e andando a casa dei ragazzi, mangiando con loro: è entrato nell’anima e nello spirito del Patologico. Il fatto che per queste tre sere di Medea al Franco Parenti lui venga a Milano per fare una scena che dura 10 secondi pur di accompagnarci in questa nuova avventura la trovo una cosa bellissima».

PATRIZIA PERTUSO

16 Maggio 2023
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