Musica
5:00 am, 27 Marzo 24 calendario

Gabriele Manca: «Vorrei che l’ascoltatore si arrendesse alla musica»

Di: Patrizia Pertuso
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Si intitola Offese fantastiche il cd di Gabriele Manca, compositore di musica, docente di composizione al Conservatorio di Milano e presso la Catedra Manuel De Falla di Siviglia. L’album sarà presentato stasera, dalle 21, alla Fabbrica del Vapore di Milano da Divertimento Ensemble, prima del concerto.

Maestro Manca, cosa sono le “Offese fantastiche”?

«Si tratta di una raccolta contenuta nel cd che ho finito di registrare qualche mese fa. È un disco di musica composta da me, dedicata fondamentalmente al pianoforte, con un solo pezzo per piano e ensemble al quale tengo molto: si tratta di Senti! Aspetta!, un pezzo molto consistente. Fra gli altri brani, anche Offese fantastiche che dà il nome all’album. È un verso di una poeta che mi piace moltissimo, Alejandra Pizarnik, una argentina morta suicida a 36 anni, un personaggio un po’ oscuro. Quasi tutti i sette pezzi al pianoforte contenuti nel cd hanno un titolo che si riferisce alla poeta. Sono dei brevi pezzi, quasi pagine di un album che, da tempo, volevo raggruppare. Sono pezzi poetici».

Ispirati dalla poesia di Pizarnik?

«Mi riferisco sempre a figure poetiche perché mi guidino, il ché non vuol dire che rappresenti musicalmente delle poesie, non lo farò mai. Però la poesia mi crea una sorta di habitat in cui posso scrivere comodamente le mie cose».

Da cosa parte l’ispirazione, quella che fa scrivere la prima nota?

«Non so bene da cosa nasca l’ispirazione: in realtà nascono delle immagini temporali; poi si butta giù una cosa su un pezzo di carta o, se si fa musica elettronica, su una traccia audio. L’ispirazione è un’idea temporale fuori dal tempo nella tua mente. Una volta che decidi di scrivere, attribuisci un tempo reale alle cose. Mi incuriosisce molto capire come gli studenti iniziano, come passano dal silenzio completo, dal nulla, a un’idea di musica. Poi, più si scrive e più viene da scrivere. Si entra nel mondo della creazione,  una specie di ciclo che quasi sempre ha una certa continuità anche se ogni tanto c’è anche un silenzio, una pagina bianca del compositore. Ma la continuità è sempre una buona garanzia di alimentazione del lavoro. Le poesie di Pizarnik sono molto belle, intense, brevi e anche molto essenziali: quest’idea di essenzialità mi ha subito influenzato. Però non c’è nessun rapporto diretto tra poesia e musica».

Nella locandina scrive: «Quando ascolto chiedo al pubblico di non cercare il senso della musica, è una ricerca senza senso». Se dietro una composizione c’è la voglia di fissare in un contesto spazio temporale un’immagne, quell’immagine fatta musica poi non ha più senso?

«Nella locandina cito De Kooning perché sostiene che, alla fine, il contenuto è piccola cosa. Anche io la penso così. Quello che conta è l’esperienza di ascolto, un’esperienza circoscritta al momento in cui le cose accadono: se guardo un quadro posso vederlo per quanto tempo voglio e da diverse direzioni; se leggo una poesia posso farlo anche 500 volte. Un pezzo di musica, invece, inizia e finisce. Si può riascoltarlo, ma ha sempre la stessa delimitazione retorica legata alla durata, lo stesso inizio e la stessa fine.  Non credo che la musica abbia un senso, un significato; credo piuttosto che sia un’esperienza dei sensi, un’esperienza del corpo».

Per questo chiede all’ascoltatore di arrendersi?

«Sì, chiedo di far parlare il corpo e di mettere da parte la mente e la memoria perché quest’ultima si porta sempre dietro giudizi, pregiudizi, categorie. Chiedo che si ascolti solo la vibrazione dell’aria, diversa per ogni composizione, per ogni esperienza uditiva. Poi mi rendo conto che quando ascolto la musica io da professionista, ma anche gli studenti, ascoltiamo quello che sappiamo di quella musica, non la musica  in sé: la storia della musica, quella del brano e quella del compositore. Mi piacerebbe fosse il contrario: mi piacerebbe ci fosse una resa volontaria dell’ascoltatore».

Lei chiede all’ascoltatore di arrendersi ai sensi per fruire non di un significato, ma di un’esperienza. Se vuole che ci si abbandoni a questa modalità, come la mettiamo con la memoria corporea?

«Esiste da un milione di anni e i suoni sono sempre legati a movimenti. Credo sia l’aspetto più istintivo: anche nei bambini molto piccoli associare suono e movimento è una necessità. L’aspetto muscolare legato alla musica è fondamentale. Non è che si senta saltare quando si ascolta un mio concerto anche perché si può dire che, per come li conosciamo noi,  i concerti sono cosa morta: c’è uno seduto sul palco e altri che ascoltano da altre parti. Però è vero, la memoria del corpo è molto più potente di quella dell’intelletto, è qualcosa di archetipico. Vedere delle persone che suonano è una specie di residuo di sovrapponibilità di suono al movimento. Ho moltissimi studenti che chiedono di lavorare sul gesto, tutti si pongono il problema dell’atto muscolare, del corpo. Come quello della presenza: cosa ci fa il musicista lì; il posizionamento è su un piano quasi speculativo rispetto all’ascolto».

Invece con la memoria emotiva? Le è mai capitato che, alla fine di un concerto, qualcuno venisse da lei dicendole di non aver capito niente, ma di aver pianto?

«Sì, mi è capitato anche che qualcuno abbia riso. Ci sono delle reazioni attraverso cui le persone si liberano dai giudizi e dai pregiudizi».

Si arrendono.

«Sì, quando qualcuno si arrende può anche ridere o piangere. È un aspetto che non bisogna trascurare anche se qualche volta è stato trattato con imbarazzo. L’esperienza fisica uditiva di presenza spesso ha un’influenza forte anche sulle emozioni».

Che colpiscono un po’ tutti, comprese le ragazzine che, anni fa, lanciavano sul palco i loro reggiseni… 

«Certo anche se questo a me non è mai capitato. Non cerco questo effetto. Non sono capace. Però qualche volta capita perché quando ci si arrende l’esperienza così istintiva e anche un po’ animale è forte. E il suono ha una grande forza».

Lei fa concerti in tutto il mondo anche fuori da un contesto prettamente occidentale come il Giappone. La fruizione della sua musica è uguale in ogni luogo? Prescinde il contesto culturale? 

«Il contesto culturale è ormai omogeneizzato in questo mondo della musica che non so nemmeno io come chiamare: classica, contemporanea, non so; non voglio dare definizioni che mi irritano. Se vado in Giappone, se vado in Cile, se vado in Germania se vado negli Stati Uniti non è che cambi moltissimo. Il mondo della musica contemporanea occidentale si è sparso ormai in tutto il pianeta. Certo, ogni paese ha le sue prerogative, ma fondamentalmente la tipologia di ascolto è analoga. Mi piace molto, invece, entrare in contatto con culture che conosco meno, dove non sono cresciuto, perché proprio in quei casi, non sapendo quasi nulla, ascolto veramente. Se ascolto la musica dei pigmei rimango incantato ascoltando solo la musica, i suoni. Solo in un secondo momento contestualizzerò, se vorrò farlo».

Però la memoria emotiva, o l’arrendevolezza come dice lei, può essere diversa in altri Paesi: non so se le è mai capitato in Giappone di incontrare qualcuno che si è messo a piangere dopo aver ascoltato un suo concerto…

«I giapponesi, in effetti, sono molto contenuti. Però ho visto, per esempio, gente piangere lacrime di commozione davanti a un acero con le foglie tutte rosse nel parco, in inverno: lo contemplava e piangeva. Nelle situazioni sociali è un po difficile vedere in loro grandi emozioni. Ma è anche vero che non è che io veda spesso piangere la gente ai concerti. Diciamo che in certi posti c’è una maggiore attenzione, un modo diverso di ascoltare. In Oriente c’è un’altro tipo di concentrazione. Quello che mi piace molto in Giappone è l’importanza del dettaglio minuscolo, del minimo dell’errore, dell’aspetto che sfugge a una simmetria: è commovente. Il piccolo particolare che rompe una simmetria per loro è una meravigliosa catastrofe».

Qualcuno ha detto che la musica è destinata a finire perché le note sono sempre sette. C’è ancora musica secondo lei?

«Le note sono molte di più: sono sette i nomi delle note, sono dodici nella nostra scala cromatica, e ora si sono aperti mondi infiniti. Giusto qualche giorno fa un mio studente si è laureato con una tesi che riguardava i sistemi della musica iraniana in rapporto ai nostri sistemi e anche all’individualità del compositore. Nella musica iraniana classica ci sono molte più note, molte più altezze, molte più varianti diverse rispetto alle nostre. Viviamo in un mondo così globalizzato, come si suol dire, che le note sono diventate molte di più. E poi con la musica elettronica e non solo ci sono infinite possibilità di combinazione. Non vedo limiti sinceramente».

Cosa ne pensa dell’uso dell’intelligenza artificiale in ambito musicale?

«Va bene per la musica di consumo, per quella usa-e-getta, per la pubblicità un po’ più cheap: abbiamo prodotti plastificati un po’ dappertutto. In realtà, non so cosa pensare dell’intelligenza artificiale. Ne facciamo largo uso già tutti i giorni. Forse sono troppo vecchio perché a me piace molto la fatica sul foglio e anche la fatica e la complessità organizzativa. L’intelligenza artificiale accumula dati. Io, invece, ho il dubbio che è  una delle cose più peculiari della nostra specie. Il dubbio fa produrre: posso accumulare e accomunare tutti i dati del mondo, ma se non ho quel momento di dubbio per cui dico “forse no, forse non è così” non serve a niente. Nella musica elettronica si ricorre già in qualche modo all’intelligenza artificiale, è anche un modo per comporre e va bene perché si accorciano alcuni passaggi di organizzazione del lavoro, ma produrre completamente un’opera di ingegno e di creazione con l’intelligenza artificiale mi sembra un po’ una stupidaggine».

Lasciamo da parte l’intelligenza artificiale, allora. C’è un rito anche scaramantico che compie ogni volta prima di cominciare un lavoro?

«Sì, ho un rito scaramantico che metto in atto quando scrivo. Ho un tic terribile: non posso consegnare un lavoro un solo giorno dopo la data di scadenza, per cui anche a costo di morire di fatica devo presentare il pezzo nel giorno in cui è stabilita la scadenza».

Più che un rito scaramantico, mi sembra attitudine alla precisione… 

«No. Se io consegno un lavoro anche solo il giorno dopo quello stabilito per me vuol dire che quello è il mio ultimo pezzo. È superstizione pura. Se consegno il giorno dopo è una tragedia. Il fatto che coincida poi con una sorta di etica è un puro caso: è solo superstizione oscurantista».

Un salto nel simbolismo: se lei dovesse paragonare la sua musica a un oggetto quale oggetto sceglierebbe?

«Comunque un oggetto solido, qualcosa di tattile, da toccare. Una superficie dalla composizione non omogenea sulla quale far scorrere le dita e sentire che non è liscia né omogenea. Non so che oggetto potrebbe essere, ma sicuramente deve avere una consistenza tattile. Non ho nessuna tendenza alla sinestesia, non vedo colori quando ascolto musica come qualcuno dice ma sento la tattilità della musica se un pezzo è ruvido, duro o molle. Anche in questo c’è molto corpo, tanto per tornare al discorso di prima».

Ultima domanda: la composizione che avrebbe voluto scrivere lei.

«C’è ne sono tantissime».

Una sola.

«Mi piacciono pezzi della musica molto remota, del Quattrocento. Ecco, avrei voluto scrivere un mottetto di Guillame Dufay, Nuper Rosarum Flores, composto per l’inaugurazione della cupola del Brunelleschi».

Una cosina da niente…

«Era stato invitato a scrivere la musica per questa cupola che è straordinaria perché ha le proporzioni di Santa Maria del Fiore. Le durate sono legate alla proporzione della Chiesa: è una delle cose più belle, forse un po’ astratta come la presenza dello spazio nella musica: lo trovo meraviglioso».

PATRIZIA PERTUSO

 

27 Marzo 2024 ( modificato il 26 Marzo 2024 | 14:45 )
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