5:58 pm, 15 Novembre 23 calendario

Gabriele Manca: «In “Illeggibile Sole” testo e musica si incontrano nell’ascolto»

Di: Patrizia Pertuso
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Gabriele Manca è un compositore, docente di composizione al Conservatorio di
Milano. Venerdì sera all’Auditorium San Fedele, in una serata in cui saranno eseguiti da gruppo Syntax Ensemble diretto da Pasquale Corrado anche brani di Matteo Franceschini, Giovanni Bertelli, Dmitri Kourliandski e Vittorio Montalti, presenterà la sua nuova opera, Illeggibile Sole I e II per voce, ensemble ed elettronica. Nelle note di sala, Manca scrive: «Con i miei ultimi lavori vorrei provocare un ascolto che sia fatto di ascolto, un ascolto che ascolti l’ascoltare, per dirla con Valery (Me voyant me voir, mi vedo vedere di Monsieur Teste). Quindi auspico che l’ascolto si riduca ad un essenziale ascoltare il modo in cui noi umani ascoltiamo, alla radice, verso l’archetipo più primitivo del pensiero: così l’uomo ascolta, così l’uomo pensa. Ma dico di più: proprio l’estraneità, la novità, ci pone di fronte al nostro essere di fronte a qualcosa, ad esplorarne il «residuo affettivo’, le sue constanti umane». «Per questo motivo – scrive ancora Manca – ho deciso di ricorrere ad un testo surrealista di Tristan Tzara, L’homme approximatif del 1931, un lungo flusso ininterrotto di scrittura automatica, di connessioni sintattiche forse casuali o comunque non causali. Questo “Illeggibile sole I e II” è una parte di un ampio progetto in cui questo testo sia sempre presente e latente».

La locandina del concerto.

Partirei subito da quel sottile confine che si dispiega tra “ascoltare” e “sentire”: qual è la differenza?
«È un po’ come l’oscillazione tra guardare e vedere. Ascoltare e sentire sono due atti complementari. L’udito non è mai a riposo: giorno e notte, abbiamo le orecchie aperte quindi sentiamo sempre. Ascoltare è un atto volontario: ascoltiamo quando vogliamo ascoltare, quando incorniciamo un momento che contiene dei suoni. È quello che diceva John Cageaffermando che la musica è tutto, tutto quello che comprendiamo nella cornice temporale dell’ascolto. L’importante è porsi nell’atteggiamento dell’ascolto; la composizione diventa in qualche modo secondaria. Cage cercava di evitare l’autorialità, la presenza dell’autore. In questo caso è molto interessante il fatto che per lui la musica non era l’autore ma ciò che lo spettatore è ascolta: questo per me è fondamentale oltre ad essere anche molto affascinate perché toglie anche un po’ di responsabilità al compositore. Naturalmente è un paradosso. La differenza tra sentire e ascoltare è questa: da una parte c’è un atto volontario e dall’altra un
atto istintivo, fisiologico».

Musica è qualunque cosa: nelle sue note scrive che chiunque può ascoltare musica di qualsiasi genere – cita quella Gagaku giapponese e fa riferimento anche a popolazioni che con  l’Occidente c’entrano ben poco come i pigmei dell’Ituri in Congo, gli Inuit della Siberia: esiste una musica universale?
«Assolutamente no, ma esiste un ascolto universale. Esiste un modo di ascoltare che è l’archetipo della nostra intelligenza. Secondo Jung abbiamo degli archetipi universali. Diceva: “così pensa l’uomo”. Io dico: “così ascolta l’uomo”. È evidente che non voglio sminuire il lavoro degli antropologi, ovviamente: ogni cultura ha la sua espressione musicale e una comunità che la esprime. Però se io appartengo a una comunità di pigmei posso ascoltare attraverso il mio apparato uditivo. Se non appartengo alla loro cultura cosa sto ascoltando? Ascolto lo stesso, ascolto qualcosa. Ho passato un po’ di tempo in Giappone e ascoltavo la musica Gagaku che è una musica di corte del 14esimo secolo: per me è talmente lontana da essere così affascinante da presentare un’occasione di ascolto rarissima e, pur non appartenendo a quella cultura, potevo ascoltarla lo stesso».

Non crede si corra il rischio di andare incontro ad una sorta di corto circuito in questa fase di ascolto tra chi compone e chi fruisce della composizione? Quello che si ascolta è veramente quello che ha voluto “codificare” l’autore?
«No, assolutamente no. Io ascolto tutt’altro, ascolto il mio ascoltare come diceva Valery, ascolto me stesso che ascolta, la mia cultura ascolta. Ma se io ascolto un pezzo di musica non solo Gagaku, ma anche del 18esimo secolo europeo non ho le orecchie, il paesaggio sonoro, il tempo di un uomo del 18esimo secolo. Ascolto Bach con piacere, ma non quello che Bach stesso o un suo contemporaneo ascoltava se non le note, ma le note sono poca cosa rispetto all’insieme della musica. Quindi è chiaro che ascolto altro e non è un tradimento: sto ascoltando il modo di essere umano».

Illeggibile Sole è una musica “per sottrazione”?
«Illeggibile Sole è una citazione da L’uomo approssimativo di Tristan Tzara. C’è qualcosa di illeggibile che vuol dire non codificabile, ma comunque percepibile. Qualcosa che si vede, ma non si legge nel suo significato intellettuale. L’illeggibilità non è necessariamente una condizione negativa, ma è una condizione di osservazione non di comprensione. E la comprensione non è necessaria, soprattutto nella musica».

Quindi è una percezione emotiva?
«Anche certo. Come diceva Susan Sontag è anche sensuale, erotica nel coinvolgimento dei sensi: il tatto, l’udito…».

Come si coniuga tutto questo con l’elettronica?
«L’elettronica per me è parte della produzione dei suoni; ho costruito alcuni corpi sonori che contengono l’elettronica. Credo che, producendo suoni come un violino o un trombone, offra suoni più duttili ma è pur sempre uno strumento come un altro che si fonde con il resto
dell’ensemble strumentale. È una parte del suono complessivo che è difficilmente individuabile nelle sue componenti. Torna, in questo caso, quell’idea di sensualità, di erotismo del suono di cui le parlavo prima che si esprime attraverso un corpo sonoro».

Lei ha annunciato che questo Illeggibile Sole fa parte di un più ampio progetto in cui il testo di Tzara sarà sempre presente e latente: di che si tratta?
«È sempre con l’Ensemble Syntax per una composizione che vada avanti per tutta una serata: ora si tratta di un’ora di musica con testo. In questo caso c’è una cantante che canta parte del testo e l’elettronica che lo riporta quasi integralmente. Verranno lette tutte le pagine: in parte sarà comprensibile, in parte latente, in parte saranno articolazione vocale o fonetica, ma ci sarà sempre. Tutta l’articolazione delle musiche è fatta dall’articolazione del testo seppur latente, visibile, sotterraneo, carsico ma costantemente presente».

Un testo che si fa musica? C’era qualcuno, anni fa, che aveva danzato sui testi…
«Sì, certamente. Sappiamo che il testo può essere inteso come oggetto grafico e come oggetto letterario. L’oggetto letterario nella tradizione orale non è grafico, ma esiste come testo tramandato oralmente. In questo caso spesso i testi nelle civiltà diverse dalla nostra sono cantati, parlati, danzati, declamati, non letti. Nella nostra cultura la lettura mentale in silenziosa e appartata è una cosa molto recente. Prima si leggeva sempre a voce alta. Quindi il testo è stato, prima di tutto, sempre suono».

La butto lì: Grotowski cercava un “teatro povero”. Lei cerca una “musica povera”? «Sì, anche se la musica è sempre complicata, è povera di elementi. Io cerco di arrivare – spero – a una economia di mezzi completa anche se è un’utopia perché l’apparato musicale è sempre
complesso. Ma sarebbe molto bello rintracciare gli elementi essenziali di un’espressione musicale anche con elementi umani ridotti al minimo. È un’idea di povertà che vuol dire sobrietà, pulizia, concentrazione».

Cosa risponde a chi asserisce che la musica è finita?
«C’è ancora un grande desiderio di fare le cose. La musica è fatta dall’ascolto, la partitura in sé non ha valore, è solo un’opera grafica mediocre. Finché ci sarà ascolto, ci sarà musica».

15 Novembre 2023
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