La battaglia di Pearl Harbor che 80 anni fa cambiò la storia
Ottanta anni fa a Pearl Harbor è cambiata la storia del mondo. L’attacco giapponese a sorpresa contro la base della marina militare statunitense alle Hawaii il 7 dicembre 1941 ha mutato il corso della storia e secondo molti esperti ha rappresentato l’evento più decisivo di tutta la Seconda Guerra Mondiale. Infatti è in conseguenza di questo attacco che gli Stati Uniti sono scesi in guerra a fianco delle potenze liberali, mentre fino a quel momento le armate della Germania nazista di Hitler dilagavano in Europa e quelle giapponesi in Asia. Inoltre, d’altro canto, se l’attacco giapponese fosse riuscito a mettere fuori uso le portaerei statunitensi (che invece si salvarono perché in quel momento non erano nell’isola) gli equilibri di forza nel Pacifico sarebbero cambiati e il Giappone avrebbe forse avuto più chances di piegare gli americani.
L’attacco a sorpresa a Pearl Harbor
Era una sonnolenta domenica tranquilla sulle isole Hawaii e nel porto di Pearl Harbor. Anche molti militari si godevano momenti di licenza. All’improvviso un frastuono invase il cielo che si andava riempiendo di aerei ostili. L’incredibile audace piano che l’ammiraglio giapponese Isoruko Yamamoto aveva immaginato contro la flotta americana alle Hawaii stava cominciando. E la sorpresa aveva funzionato. Le sei portaerei giapponesi Akagi, Kaga, Shokaku, Zuikaku, Soryu e Hyriu si avvicinarono il più possibile agli obiettivi, e alle 6 di mattina del 7 dicembre lanciarono la prima ondata di aerei: si trattava di aerosiluranti e bombardieri in picchiata, e il loro obiettivo erano soprattutto le navi alla rada, in specie le corazzate, che Tokyo temeva ancor più delle portaerei. La formazione attaccante si suddivise presto in vari gruppi, ognuno con uno specifico obiettivo. Ciascun pilota aveva non solo le indicazioni del luogo da colpire, ma anche l’immagine del bersaglio contro cui concentrarsi. Presso l’isola Ford erano attraccate le navi più importanti, in quello che fu chiamato “viale delle corazzate”. Qui si concentrarono i B5N con bombe e siluri. Pochi minuti dopo le 8 esplose la corazzata Arizona, centrata nella santabarbara. Poco dopo il primo attacco dalle portaerei si alzò una seconda ondata di velivoli per accrescere i danni: stavolta si trattava soprattutto di bombardieri che dovevano finire le navi già danneggiate, e dei micidiali caccia zero, che dovevano cercare il più possibile di impedire agli aerei americani di levarsi in volo, in modo da garantirsi il dominio dell’aria. Meglio ancora se fossero riusciti – come in effetti fu – a distruggerne il maggior numero possibile ancora a terra. Mentre tutta l’isola era in subbuglio, il comandante della squadra navale giapponese Chuichi Nagumo dovette decidere se era il caso o meno di attardarsi per una terza ondata di attacchi aerei. Ritenne che gli obiettivi raggiunti fossero sufficienti, e così l’armata giapponese prese la via del ritorno, dopo aver impiegato 389 aerei e averne persi solo 26 in tutto. I danni alla flotta statunitense furono comunque ingenti: gli americani persero circa 2.400 uomini; 18 navi furono colpite e gravemente danneggiate (tra cui le corazzate Arizona e Oklahoma risultarono irrecuperabili); quasi 200 aerei furono distrutti. Dal porto erano però assenti le portaerei americane Lexington, Saratoga e Enterprise, che ai giapponesi sarebbe stato molto utile danneggiare. Lo scopo strategico dell’attacco era infatti quello di eliminare preventivamente in un colpo solo la flotta statunitense dal Pacifico, obiettivo che non fu raggiunto. La resa dei conti era rimandata alle isole Midway, ma intanto Tokyo aveva risvegliato il gigante americano trascinandolo in una guerra che senza Pearl Harbor non sarebbe stato ancora intenzionato ad affrontare.
La mancata dichiarazione di guerra
L’effetto sorpresa era fondamentale per la riuscita dell’operazione di attacco, altrimenti la flotta giapponese si sarebbe trovata esposta. Ma in realtà Tokyo aveva previsto di consegnare formalmente la dichiarazione di guerra. I tempi però erano troppo stretti e l’appuntamento fu mancato. A Washington da tempo procedevano negoziati tra Stati Uniti e Giappone per scongiurare una guerra nel Pacifico. Ma nessuno era convinto che si sarebbe arrivati a un risultato. Così il 26 novembre in gran segreto la flotta giapponese (31 navi, tra cui 6 portaerei con 423 aerei) salpò per il lungo viaggio verso le Hawaii, mantenendo il più assoluto silenzio. Le trattative andavano intanto avanti (ma anche gli Stati Uniti – capaci di intercettare i messaggi nemici – sapevano che la situazione stava per precipitare) e il 1° dicembre l’imperatore Hirohito autorizzò l’attacco. Tokyo nella notte del 6 dicembre inviò all’ambasciatore a Washington un lungo documento in 14 punti che doveva valere come dichiarazione di guerra, e che doveva essere consegnato alle 13 del 7 dicembre ora di Washington, le 7.30 alle Hawaii, un’ora prima dell’attacco. In realtà una serie di imprevisti burocratici fecero sì che la dichiarazione di guerra venisse consegnata quando i bombardamenti su Pearl Harbor erano iniziati già da mezz’ora. Essendo fondamentale la sorpresa, vollero attendere l’ultimo momento, ma la dichiarazione trasmessa all’ambasciata a Washington rimase in giacenza per una serie di contrattempi.
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