Milano
2:23 am, 3 Aprile 24 calendario

Dijana Pavlovic: «Le comunità romanì tra stereotipi, pregiudizi e ghettizzazioni»

Di: Patrizia Pertuso
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Dijana Pavlovic è la portavoce del Movimento Kethane rom e sinti per l’Italia. “Kethane” vuol dire “insieme”. Il Movimento è nato nel 2019 con l’obiettivo di dar voce alle comunità romanì per rappresentarne le istanze. Oggi raccoglie circa 12 mila rom e sinti in tutta Italia: «Il movimento – spiega Pavlovic – è uno dei tanti che sono nati in Europa e sta confluendo in uno transnazionale che si chiamerà Rom for democracy».

Signora Pavlovic, cerchiamo di fare subito chiarezza su un argomento così “particolare”. Cominciamo dall’inizio. Cosa intende per comunità romanì?

«La comunità romanì mette insieme i 5 più grandi gruppi che vivono in tutti i Paesi europei: i rom, presenti soprattutto nei Paesi balcanici sono il gruppo più numeroso; i sinti, molto presenti in Germania, Austria e nel Nord Italia, sono quelli che si occupano soprattutto di spettacolo viaggiante, giostre e circhi. Poi ci sono i kalè, gruppi di flamenco, legati alla Spagna, all’Andalusia: anche loro sono un gruppo molto numeroso come i manouches che vivono in Francia: sono gens du voyage, gente che viaggia ancora, e che ha “prodotto” il jazz europeo tramite Django Reinhardt. Infine i gypsies, gli inglesi, che in gran parte ai primi del ‘900 sono emigrati anche negli Stati Uniti. Elvis Presley e Charlie Chaplin avevano i loro geni. La comunità romanì raccoglie tutti questi gruppi che poi, a loro volta, si dividono in sottogruppi in base ai mestieri che svolgono: quelli che si occupavano della lavorazione del rame, quelli che commerciavano i cavalli e producevano strumenti musicali, alcuni di loro sono stati grandi violinisti, e quelli che lavoravano il ferro, per citarne alcuni. La base comune è la lingua, il romanès, e la provenienza, l’India. Tutti i gruppi hanno mantenuto la lingua che proviene direttamente dal sanscrito anche se “inquinata” dai termini dei diversi Paesi in cui si sono stabiliti, e tutti condividono valori comuni».

Quali?

«La vita in famiglie allargate, l’organizzazione sociale dei gruppi, la vita in comunità, la cura degli anziani, per esempio. Molti hanno un passato nomade alle spalle e per questo si portano dietro musiche molto diverse tra loro, dal flamenco al jazz europeo fino alla musica balcanica, che però hanno le stesse basi. In comune hanno anche il culto dei bambini: vengono cresciuti nelle comunità seguendo regole precise. I bambini sono persone fin da quando nascono e quindi c’è un grande rispetto verso di loro, sono considerati una grande ricchezza. Fin da quando sono piccolissimi gli vengono insegnati il rispetto dell’anzianità e della loro personalità: non gli si impone di fare un lavoro che vogliono i genitori, si capisce chi sono da quando sono piccoli e si rispettano per la loro indole e per le loro inclinazioni personali».

Qual è il ruolo della donna?

«Secondo quanto riportato da testi di antropologi le comunità romanì sono sempre state matriarcali fino all’Ottocento: le donne hanno avuto un ruolo fondamentale di cura e di magia, aspetti importanti per la comunità. Maneggiavano le erbe, sapevano curare, avevano il potere della magia. Con l’arrivo delle religioni monoteiste – i rom seguono tutte le religioni: sono cristiani ortodossi, musulmani, cristiani cattolici – hanno adottato nei confronti delle donne il rapporto prescritto dalle diverse fedi, un rapporto fatto di sottomissione, ma questo credo che riguardi tutte le comunità in generale. Alcuni gruppi rom hanno mantenuto le usanze originali come i matrimoni combinati anche se negli ultimi vent’anni questa tradizione è quasi completamente sparita. I rom sono conservatori delle tradizioni proprie, ma anche di quelle “occidentali”, dei posti dove stanno, dove si sono fermati».

Quindi c’è una sorta di incorporazione culturale in base al luogo in cui vivono?

«Assolutamente. La lingua, la cultura, le usanze e la religione sono la chiave di sopravvivenza di un popolo che non ha una propria patria, non ha un proprio paese, non ha dei confini. La cultura romanì si integra – anche se a qualcuno questo verbo farà sorridere – con quella che trova nel Paese che lo ospita».

In questo momento si parla così tanto di migrazioni. Da cosa nasce il nomadismo delle comunità romanì? Molti, diciamolo senza falsi tabù, si chiedono: “perché se sono nomadi non girano”?

«In realtà non sono più nomadi, sono stanziali da diversi decenni, alcuni anche da qualche secolo. È un popolo che è scappato dall’India, secondo studi storici, dopo qualche grave evento, una guerra o una carestia. Non c’è una storia scritta, ma sappiamo che vengono tutti da lì grazie allo studio del dna e della lingua. Arrivano nei Paesi balcanici attraverso la Turchia, la Grecia, nel XII secolo e in Italia nel XIV. Si muovono perché vengono cacciati. Il valore di tutta la società occidentale era di essere stanziali. I nomadi facevano paura: la gente che si muoveva faceva paura e, dunque, venivano cacciati. Vedevano questo popolo strano, nessuno capiva da dove arrivava, con una lingua sconosciuta e che praticava la magia. Chi è riuscito a fermarsi si fermava, gli altri scappavano in tutta Europa. Nei secoli la storia dei romanì è una storia di persecuzioni. La stanzializzazione è stata un’operazione forzata come quella portata avanti da Maria Teresa d’Austria nel ‘700. Loro si spostavano perché facevano dei mestieri itineranti e quindi la loro vita si era adeguata al nomadismo: se il giostraio rimane fermo in un punto non ha sempre lavoro; lo stesso discorso vale per quelli che commerciavano i cavalli e lavoravano nelle fiere o per quelli che restauravano le chiese e che lavoravano con i metalli e con gli oggetti sacri. In Romania per 500 anni, dal 1300 al 1800, i rom sono stati schiavizzati e quindi stanzializzati loro malgrado. Ancora oggi i giostrai hanno grossi problemi perché spesso le amministrazioni comunali non danno loro le autorizzazioni per lavorare nelle piazze: i giostrai si muovono in carovana e quindi hanno bisogno di spazio, ma questo spazio viene loro negato sebbene paghino tasse anche molto salate. C’è una pressione enorme per abbandonare questa vita itinerante, ma se abbandonano i loro mestieri, che sono legati alla vita nomade, la società si rivela loro come totalmente chiusa. L’unica possibilità sono i campi, l’esclusione, e questa marginalità impedisce il loro accesso al mondo economico, scolastico e lavorativo. Rimangono imprigionati in un limbo».

Nell’immaginario collettivo i bambini zingari sono quelli che vanno in giro a chiedere l’elemosina, usati dai genitori per commuovere chi può dar loro soldi. Rubano e sono sporchi. Quegli stessi bambini, se tolti alle famiglie, difficilmente vengono adottati: nessuno se la sente di portarsi uno zingarello in casa.

«Questo in realtà è un grande argomento legato alle condizioni sociali di un pezzo della comunità, quello più povero, più emarginato, rifiutato e criminalizzato. Nessuno può pensare che le persone si lascino morire di fame, e dunque molte di queste persone chiedono l’elemosina. Ma per queste comunità non è una cosa vergognosa. Una donna che chiede l’elemosina per strada subisce una vita orribile fatta di violenza e rifiuto, di continua umiliazione. Però riesce a comprarsi da mangiare. Si porta il figlio con sé perché non lo può lasciare dove vive: spesso stanno sotto i ponti o nelle baraccopoli, in condizioni impossibili. Se poi il bambino è molto piccolo e deve essere allattato non può essere abbandonato. Le donne sono quelle che vanno a chiedere l’elemosina perché vengono viste dagli occidentali in modo molto meno pericoloso rispetto a come vengono visti gli uomini. E la gente dà più soldi quando vede una donna con un bambino piccolo. Non vede una donna in difficoltà e un bambino che deve mangiare: vede una criminale. Quando qualcuno vede una mamma con un bambino che chiede l’elemosina non si preoccupa di capire dove vivono, come mangiano, perché sono in quelle condizioni. Preferisce toglierlo alla madre o criminalizzarla. Questo è veramente disgustoso a mio parere. Ma questo è un problema della società non della comunità, il problema della comunità è quello della povertà. Queste cose si fanno quando non si hanno altre possibilità di vivere, non è, come pensano molti, sfruttamento dei bambini».

Signora Pavlovic, sulla questione adozione cosa ci dice?

«Le ricerche statistiche dicono che negli ultimi vent’anni i bambini rom molto piccoli, quelli appena nati, rappresentano una “fabbrica” per le adozioni: il 40% degli adottati sono rom. Oggi si fa molto uso del termine genocidio, ma spesso si dimentica che in quel termine sono comprese anche la sterilizzazione forzata delle donne che per noi è durata in tutta Europa fino al 1979, l’ultimo caso è del 2004 in Slovacchia. Parallelamente si procede con il togliere i figli alle madri. Credo che togliere questi bambini ad un gruppo etnico e affidarli ad un altro, così come successo anche per altre minoranze come i latinoamericani, possa essere compreso nel termine genocidio».

Nell’opinione comune le ragazzine zingare sono quelle che rapinano i passanti.

«Le comunità versano in una povertà totale e vivono in condizioni disastrose: rifiuto, marginalizzazione e segregazione producono anche fenomeni di microcriminalità. Io quando avevo 12 anni, e ovviamente non sono cresciuta in un campo o in una baraccopoli, ma in Serbia, un paese in guerra, con una famiglia molto povera, ho iniziato a lavorare: vendevo fiori perché dovevamo mangiare. Questo non vuol dire che i miei genitori erano cattivi genitori, ma solo che la mia famiglia versava in condizioni di grandi difficoltà e io ho voluto contribuire. Non ho commesso reati perché con quei soldi riuscivamo a sopravvivere, ma se non ce l’avessimo fatta?».

Secondo diversi studi la donna zingara è la strega perché ha a che fare con la magia, un esempio letterario ne è la “Carmen” di Merimée; è quella sempre incinta perché così può rubare e non andare in galera. I loro figli sono quelli che “servono” a chi non può averli. Lei diceva che le donne sono viste come un pericolo minore rispetto agli uomini. Francamente non mi sembra.

«Una volta era così. Adesso la disumanizzazione è tale che coinvolge tutti. Però un uomo è sempre una presenza più paurosa rispetto alla figura di una donna. Si ricorda la paura che metteva “l’uomo nero”? Oggi quando una persona vede un bambino non vede solo un bambino, vede uno zingarello che si merita di stare per terra, di non mangiare e di vivere nella sporcizia. La questione delle donne, da una parte così sessualizzate, mangiatrici degli uomini, da Esmeralda a Carmen fino a Puskin nella letteratura, è una cosa ormai comune. In realtà, le donne sono donne, sempre e ovunque, anche se è banale dirlo. Noi veniamo dall’Inquisizione quando si bruciavano le streghe. L’ultima fu bruciata proprio a Milano, in piazza Vetra. Da sempre c’è questa criminalizzazione nei loro confronti, soprattutto se sanno curare con le erbe, ma ciò riguarda in generale il mondo occidentale che si è accanito per secoli contro le donne. Se poi quella donna è rom allora rappresenta la diversità culturale della comunità romanì ed è tutto triplicato: c’è una donna, c’è una donna “altra” ed è pure zingara. In un momento in cui tutto il mondo era stanziale, in cui la gente dalla nascita alla morte non si spostava facilmente, i rom viaggiavano, conoscevano il mondo, sapevano cosa succedeva in altri luoghi. Dunque mettevano paura e incutevano diffidenza. Oggi, invece, proprio quando il valore del mondo è la mobilità, i rom sono diventati stanziali, sono di nuovo contro corrente. Verso di loro c’è un atteggiamento duplice: da una parte disprezzo, paura, rifiuto, dall’altra anche un po’ di invidia. L’immagine della donna è così: Carmen è terribile, però è anche l’espressione di una libertà che magari non si ha il coraggio di vivere. La punta di invidia è quella che fa dire, per esempio, a Salvini “anch’io vorrei avere una vita così, commettere reati e non andare in galera”. Questa è la narrazione di quelli che fanno le crociate contro i rom pensando che facciano quello che vogliono, che siano impunibili, ma non è vero: chiunque commette un reato ne subisce le conseguenze soprattutto se è una persona fragile».

In questo periodo purtroppo i femminicidi sono all’ordine del giorno: signora Pavlovic questi reati coinvolgono anche le comunità romanì?

«Nella nostra comunità, “inquinamento” culturale a parte, non ci sono femminicidi. Una delle cose che appartengono ai valori romanì è che non si uccide, non si toglie la vita. Mai. I rom non hanno mai armato un esercito per andare a conquistare una terra, non ne hanno mai provocato una, non si uccidono tra loro».

L’8 aprile è la giornata internazionale dei rom e sinti. Come è nata?

«E’ stata istituita nel 1971, con il primo Congresso mondiale dei rom, la prima azione politica organizzata dalla comunità rom europea. Vi partecipo anche Yul Brynner. Si sancì che eravamo una nazione senza uno stato, una nazione transnazionale. Si scelse la bandiera, blu come il cielo, verde come la terra, con in mezzo una ruota rossa che, simbolicamente, rappresenta il viaggio dall’India verso l’Europa. Si stabilì l’inno che parla del genocidio durante la Seconda Guerra Mondiale e da lì partì la lotta contro l’oppressione delle comunità rom in Europa. Noi ancora lottiamo».

Il 7 aprile a Milano, al Mare Culturale Urbano di via Gabetti 15, dalle 17 presenterà tre libri. Per uno di questi, “Gli occhi del compianto agnello”, di Jovan Nikolic, lei ha scritto la prefazione.

«Jovan è il mio poeta preferito fin da quando ero ragazza e ho ritenuto giusto farlo conoscere agli italiani. Non scrive poesie, ma scritti poetici. È molto conosciuto sia in Serbia dove vive, sia in Germania. Ho tradotto i suoi testi in italiano perché credo che racconti l’anima di quello che noi siamo. Siamo riusciti a pubblicarlo con Upreroma, una casa editrice che ha come obiettivo la diffusione della cultura romanì, grazie ai contributi che l’Ufficio nazionale Antidiscriminazione razziale ha deciso di dare alle associazioni rom e sinte tra le quali rientra anche questa casa editrice. Oltre al libro di Jovan, ne presenteremo un altro di una donna meravigliosa che si chiamava Filomena Franz: è stata in 5 campi di concentramento, è morta a 95 anni, e nel testo racconta la sua vita e il suo calvario, compreso l’internamento nei campi e Auschwitz. Presenteremo, infine, il libro fotografico (uno scatto nella foto, ndr) con cui Paolo Poce in 20 anni ha documentato le comunità rom milanesi, da via Adda in poi. E’ entrato nei campi rom e nelle comunità per illustrare la sua esperienza dagli sgomberi ai matrimoni fino ai battesimi».

Un’ultima domanda, signora Pavlovic. So che per le comunità rom c’è la figura di un pugile che è diventata l’emblema della loro resistenza. Ci racconta la sua storia?

«Il pugile si chiamava Rukeli. Upreroma pubblicò il libro su di lui, “Buttati giù zingaro”, e poi anche Dario Fo ne scrisse uno, “Razza di zingaro” basato sulla sua storia. Era un sinto tedesco, un ragazzo semplice, che iniziò a fare pugilato negli anni ’30.  Diventò un campione grazie al suo stile meraviglioso: lo chiamavano il “pugile danzante” perché schivava tutti i colpi coem se danzasse sul ring. Con l’ascesa del nazismo e poi con Hitler al potere iniziò a infastidire i pugili ariani. Combattè per il titolo tedesco e vinse. Ma gli arbitri cercarono di togliergli il titolo. Solo dopo che il pubblico si ribellò furono costretti a riconoscerne la vittoria. Passarono due settimane  e quello stesso titolo gli venne tolto nuovamente perché, dicevano, non combatteva con lo stile ariano, danzava troppo. Lo stile ariano, invece, prevedeva di restare fermi e dar cazzotti. La sua comunità sportiva gli chiese se voleva tornare a combattere per riprendersi il titolo ma se avesse scelto di farlo, avrebbe dovuto stare sul ring come ci stava un ariano, tirando cazzotti senza danzare. Rukeli capì che doveva perdere perché non sarebbe riuscito a combattere in quel modo e allora fece una cosa eclatante e bellissima, una che resta nella nostra storia come un segno di rivolta, di ribellione contro il nazismo: uscì sul ring cosparso di farina per essere più bianco e con i capelli ossigenati: in questo modo mise in ridicolo l’ariano antagonista. Per quattro round restò immobile facendosi picchiare finché non crollò. In seguito, venne sterilizzato, portato in diversi campi di concentramento e alla fine fu ucciso in uno di questi. Nei primi anni del 2000 lo Stato tedesco gli restituì il titolo di campione tedesco. Per noi è sempre stato il simbolo della resistenza dei rom e dei sinti».

PATRIZIA PERTUSO

 

 

 

 

 

3 Aprile 2024 ( modificato il 2 Aprile 2024 | 18:13 )
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