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10:30 am, 11 Dicembre 23 calendario

“La Cina oggi: e domani?”, Roberto Malighetti spiega la BRI

Di: Patrizia Pertuso
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Nei giorni scorsi, il governo Meloni ha formalizzato la decisione di far uscire, dopo quattro anni, l’Italia dalla “Via della Seta”, il piano cinese lanciato nel 2013 da Xi Jinping per rimodellare l’economia globale. Si interrompe così la presenza italiana nella “Belt and Road Initiative” di Xi, la cosiddetta BRI. Per capire di cosa si sta parlando, Metro ha incontrato Roberto Malighetti, professore ordinario di Antropologia culturale all’Università degli Studi di Milano-Bicocca, dove insegna Metodologia della Ricerca Antropologica e dove ha inaugurato la prima cattedra in Italia di Antropologia della Cina.

Malighetti e la Cina

Malighetti, dopo aver svolto un intenso lavoro sul campo, soprattutto in Brasile e Amazzonia, dove si è occupato per più di trent’anni di vari temi  tra cui culture e religioni afrobrasiliane, schiavitù, identità, medicina, sciamanesimo, violenza, politiche di emarginazione e pratiche di resistenza, dal 2012 concentra il suo sguardo sulla Repubblica Popolare Cinese, facendo ricerca sui contributi dell’antropologia cinese e sulle forme di pluralismo religioso, medico ed etnico. Dallo stesso anno collabora con la Minzu University of China. Le sue pubblicazioni in diverse lingue riflettono i principali interessi e includono la ricerca epistemologica e metodologica, i temi legati all’antropologia dello sviluppo, all’antropologia medica, all’antropologia applicata. Per quanto riguarda la Cina oltre a articoli su riviste nazionali e internazionali ha scritto Antropologie dalla Cina, SEID, Firenze 2014, e un libro in cinese di metodologia della ricerca, Research Methods in Ethnology and Anthropology, Pechino, 2018).

L’incontro di giovedì al Club Milano sulla BRI

Giovedì, dalle 18, Roberto Malighetti parteciperà ad un incontro al Club Milano (viale Lombardia 20), organizzato dal Centro Studi Raniero Panzieri, dall’Università Milano-Bicocca, dall’Associazione culturale Puntorosso e dal Cub Milano, intitolato La Cina oggi: e domani? Profili economici e politici. Oltre a Malighetti, parteciperanno anche Roberto Artoni, professore emerito di Scienza delle finanze all’Università Bocconi di Milano, e Vincenzo Comito, professore di Economia aziendale presso la Luiss Guido Carli e l’Università Carlo Bo di Urbino, moderati da Francesco Bochicchio.

Professor Malighetti, ci spiega cosa è la BRI?
«Dopo il Piano Marshall, costituisce il secondo maggior programma di diplomazia economica o di geo-economia della storia. Fu lanciato da Presidente Xi nel 2013, all’indomani della sua elezione, durante una serie di visite nel Sud-Est Asiatico dove utilizzò per la prima volta i termini “Silk Road Economic Belt” (“Cintura Economica della Via della Seta”) e “21st Century Maritime Silk Road” (“Via Marittima della Seta del 21mo Secolo”, ndr) intendendo una cintura e una strada che uniscono la Cina con l’Europa e con il mondo. Il termine “Silk Road” fu poi sostituito dall’espressione “One Belt One Road” e poi da quella definitiva, “Belt and Road Initiative”. L’impatto di questo principale pilastro della politica estera cinese è subito chiarito da pochi numeri. Secondo il Belt and Road Portal del governo cinese, nell’agosto 2023, i paesi che avevano aderito alla BRI firmando un memorandum d’intesa (MoU) erano 155: 40 paesi in Asia, 52 in Africa, 27 in Europa, 24 in Centro e Sud America e 12 in Oceania. In sintesi, la BRI (Belt and Road Initiative, ndr) interessa il 55% del PIL mondiale, il 70% della popolazione mondiale, il 75% delle riserve energetiche e tocca tutti i Continenti. Si calcola che in dieci anni la Cina abbia fornito prestiti per un trilione di dollari Usa per finanziare progetti in tutto il mondo in via di sviluppo. L’importanza della BRI fu segnata dalla sua incorporazione nel 2017 nella Costituzione e successivamente nel 14esimo piano quinquennale 2021-2025. Il Presidente Xi scrisse che i progetti della Belt and Road miravano ad assicurare alla Cina “buone relazioni internazionali affinché possa procedere alle proprie riforme, al proprio progresso e alla propria stabilità”. Il documento ufficiale definì “proattiva” questa iniziativa sullo scenario internazionale, e la conseguente attività diplomatica “alla stregua di una grande potenza”. Da una parte la BRI indica la fine della strategia molto prudente negli affari globali di Deng Xiaoping, dall’altra inaugura quella che il neo presidente definì nel 2017 “una Nuova Era”».

Di che si tratta?
«La “Nuova Era” fu spiegata dallo stesso Xi a Davos nel gennaio del 2017, in apertura dei lavori del World Economic Forum, prima volta per un presidente cinese. In quella circostanza, Xi Jinping presentò la Cina come nuova guida di un sistema economico mondiale aperto e multipolare, rimarcando quanto già esposto nel precedente G20. Dichiarò che la Cina era pronta per una nuova stagione di global governance dell’economia, all’interno dell’ordine esistente, fondato sulla libera circolazione delle merci e contro i rischi protezionistici promossi dagli Usa e dagli Stati sotto l’egemonia statunitense. Mai nessun leader in passato aveva espresso un piano di governance che coniugasse il focus sullo sviluppo interno con un protagonismo così forte sulla scena internazionale. In questo aspetto si configura quello che Xi Jinping denominò il “sogno cinese” o “la rinascita della nazione cinese”, ovvero la volontà di riportare il Paese al centro del mondo, dopo il cosiddetto «secolo dell’umiliazione» causato principalmente dall’invasione e dal saccheggio dell’Occidente, inizialmente guidato dagli Inglesi per imporre l’acquisto cinese di oppio proveniente dall’India in cambio di tè, e dall’invasione giapponese».

Come si pone la “Nuova Era” in un futuro prossimo?
«La “Nuova era” di Xi Jinping si proietta verso il futuro fondandosi sul principio del “Socialismo con caratteristiche cinesi” elaborato da Deng. La sua interpretazione di Xi “Socialismo con caratteristiche cinesi per una Nuova Era” fu formalmente inserita nello statuto del Partito Comunista. Esprime quella che è stata chiamata la “terza rivoluzione” cinese successiva a quelle di Deng Xiaoping e di Mao Zedong. Si configura secondo due elementi: il piano “Made in China 2025” e la BRI».

Le cose si complicano: piano “Made in China”?
«È un piano che mira a trasformare l’impianto economico-industriale del Paese puntando sull’innovazione e la tecnologia. Prospetta entro il 2030 la leadership cinese per quanto riguarda le nuove tecnologie e, in particolare, l’Intelligenza Artificiale, robotica, Big Data e via dicendo. Il piano promuove una maggiore compenetrazione tra pubblico e privato, fortificando la partecipazione statale nelle aziende fiore all’occhiello del rinnovato “made in China”, i colossi cinesi compresi quelli dell’e-commerce o delle app dei social e del gaming».

Chiariti i concetti di “Nuova Era” e di “Made in China”, torniamo alla BRI. Su quale idea si basa?
«L’idea di base è collegare la Repubblica Popolare Cinese al resto del mondo tramite progetti infrastrutturali lungo rotte terrestri e marittime. I documenti ufficiali a partire dal 2016 configurano la Belt (“cintura”) con sei “corridoi” economici terrestri e tre passaggi ferroviari e la Road con le rotte marittime che collegano i grandi porti dal Mediterraneo all’Oceano Atlantico comprendendo, in prospettiva e in vista del progressivo scioglimento dei ghiacci, anche l’Artico. Gli investimenti cinesi nei porti stranieri, l’acquisizione del controllo di un terminal o di un intero scalo marittimo, sono il perno su cui ruota lo sviluppo della rotta marittima della BRI».

Questo contesto di investimenti e acquisizioni si applica esclusivamente ad un ambito economico?
«È evidente che la BRI guardi ben oltre lo sviluppo economico parafrasando le parole di un documento ufficiale del marzo 2015, redatto congiuntamente e significativamente dalla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, dal Ministero del Commercio e dal Ministero degli Affari Esteri».

Cosa riporta quel documento?
«Secondo quel documento la BRI dovrebbe aiutare a promuovere prosperità economica e cooperazione regionale, gli scambi e l’apprendimento reciproco tra civiltà diverse, la pace e lo sviluppo nel mondo. Elenca cinque “connessioni” che la BRI dovrebbe realizzare; di queste, tre sono principalmente economico-finanziarie e riguardano infrastrutture di collegamento, commercio e finanza. Le altre due sono di natura più direttamente strategica e sono definite come “comunicazione politica” e “connettere le menti delle persone”. Queste ultime due connessioni si fondano sull’utilizzo di soft-power e sulla capacità di muoversi efficacemente a livello immaginifico e comunicativo».

Quali sono i rapporti che legano la BRI con la politica interna del Paese e con quella verso i Paesi esteri?
«L’ufficio del gruppo dirigente e di coordinamento della BRI è ancorato alla Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma e all’agenzia di pianificazione economica. È parte integrante del progetto di coniugare, strutturalmente e istituzionalmente, lo sviluppo interno della Cina con le relazioni internazionali. Internamente la BRI mira a contribuire al progetto economico per una «nuova normalità» così definita dal presidente Xi Jinping, fondata sulla diversificazione dell’economia, sulla crescita sostenibile e sulla redistribuzione della ricchezza in modo più uniforme».

A livello pratico verso quali ambiti si rivolge?
«Ai grandi problemi che investono la realtà socio-economica cinese: l’innovazione economica e tecnologica, la sovrapproduzione delle industrie pesanti, il potenziamento delle esportazioni, la diversificazione delle fonti di approvvigionamento energetico e la riduzione dalla dipendenza dal carbone. Inoltre, tocca il rallentamento del PIL cinese, lo sviluppo delle sue province occidentali, e la loro connessione infrastrutturale con la ricca costa, comprese le Regioni Autonome del Xīzàng/Tibet, del Xīnjiāng e della Mongolia interna ricche di grandi riserve energetiche e materie prima dove vivono quelle che noi definiamo “minoranze etniche”: circa 11 milioni di Uighuri, intorno al 51% della popolazione del  Xīnjiāng; circa 2 milioni e 700 tibetani ovvero il 74% della popolazione del Xīzàng/Tibet e circa 4 milioni di Mongoli pari al 17% della popolazione della Mongolia Interna».

Invece per quanto riguarda le relazioni internazionali?
«La BRI mira sostanzialmente a costruire infrastrutture in territori stranieri. Fra queste di grande importanza sono gli investimenti nei porti stranieri: il controllo di un terminal – come quelli di Rotterdam, Anversa, Zeebrugge, Bilbao, Valencia, Vado Ligure, Dunkirk, Marsiglia, Le Havre, Marsaxlokk, Salonicco, Amburgo e Doraleh-Djibouti – o di un intero scalo marittimo – è il caso del Pireo e Hambantota nello Sri Lanka.  La BRI mira anche all’internazionalizzazione della moneta Yuan e al suo uso nelle transazioni attraverso il lancio del “Silk Road Fund” (“Fondo della Via della Seta” ndr) e della AIIB, Asian Infrastructure Investment Bank (“Banca Asiatica di investimento per le infrastrutture” ndr)».

Fin qui i progetti. Quale la fattibilità, secondo lei?
«Con un’economia in rallentamento e una riserva di valuta estera in calo, la Cina potrebbe trovare problemi per finanziare gli ambiziosi progetti BRI. Inoltre la BRI si trova intralciata dall’incertezza e dalla complessità del sistema internazionale, dall’instabilità interna di alcuni paesi come Pakistan e Afghanistan – oltre alla stessa guerra in Ucraina, che, peraltro, ha firmato un memorandum di intesa simile a quello italiano. Tuttavia il più grande ostacolo è costituito dall’opposizione degli Usa e di alcuni paesi satelliti loro “alleati”. Sicuramente la BRI è uno strumento che supera la sempre più inattuale e pericolosa “monarchia” dell’impero Usa-Nato. Promuove un mondo inevitabilmente multipolare fondato sulle infrastrutturazioni e sul commercio e non sulle oltre 600 basi Usa-Nato conosciute e i circa 220 mila soldati Usa in 170 dei 195 Paesi ufficialmente riconosciuti. Costituisce una seria alternativa, soprattutto nei confronti dei Paesi cosiddetti “in via di sviluppo”, ai fallimenti del Washington consensus, dei piani di aggiustamento strutturale, delle politiche neoliberiste e di cooperazione internazionale».

Torniamo alla “vecchia” contrapposizione dei blocchi Usa-Cina?
«Gli ultimi presidenti Usa, da Obama a Biden, hanno più volte affermato che la Cina costituisce il principale nemico per la sicurezza nazionale. Hanno sostanzialmente riproposto la “Teoria della Minaccia Cinese”, coniato nel 1992 dalla Defense Planning Guidance (DPG) del Pentagno. Quel modello si coniuga con la teoria secondo cui il governo del mondo si possa realizzare solamente controllando l’Eurasia, teoria espressa già nel 1904 dal fondatore degli studi geopolitici, Sir Halford John Mackinder e lucidamente illustrata dal consigliere di Carter, Brezinski nel 1997. Sicuramente la BRI ostacola questa strategia fondata sull’incubo Usa di una possibile saldatura fra Europa e Asia.  L’ultimo incontro a San Francisco fra i due Presidenti, Biden e Xi Jinping a margine del vertice della Asia-Pacific Economic Cooperation registra solo dei piccoli passi in avanti verso il dialogo, nonostante le dichiarazioni ufficiali abbiano ribadito la volontà che la competizione tra Usa e Cina non si trasformi in conflitto e la necessità di  lavorare insieme su temi di portata globale: dai conflitti internazionali, ai problemi relativi al controllo militare della Intelligenza Artificiale e alla lotta al cambiamento climatico. Tuttavia, in relazione alla complessa e difficile questione della Repubblica di Cina, che noi chiamiamo Taiwan, si registrano le timide affermazioni di Biden, senza crederci troppo e ricordando la promessa di non allargamento della Nato in Europa dell’Est. L’adesione Usa alla “One China Policy” e il rifiuto di sostenere l’indipendenza dell’isola, non rinuncia a continuare a militarizzarla, così come è stato fatto con i Paesi che si affacciano sul Mare Cinese, dal Giappone alle Filippine.  Xí, da parte sua, ha dichiarato che la Repubblica Popolare Cinese non ha intenzione di riannettere la Repubblica di Cina con mezzi militari, e nel contempo ha affermato che la “riunificazione” dell’isola alla madrepatria è “inarrestabile” e che dovrà essere celebrata il giorno del Centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese, cioè il primo ottobre 2049».

In tutto questo, l’Italia?
«L’Italia è un Paese a sovranità limitata. Non solo perché, con buona pace di Machiavelli, si stimano più di 120 basi e installazioni Usa-Nato e più di 12 mila militari, ma, e forse soprattutto, in ragione degli esiti tragici sulla nostra storia recente di quella che Enrico Berlinguer definì “la lezione Cilena”. Di conseguenza il 4 dicembre, il governo Meloni ha disdetto ufficialmente con una semplice nota consegnata al Governo cinese, senza alcun annuncio pubblico, la partecipazione al memorandum d’intesa “sulla collaborazione nell’ambito della via della Seta” firmato nel marzo 2019 dal governo Conte I, esito ultimo del lavoro degli esecutivi precedenti. Alla vigilia dell’inizio della presidenza italiana del G7 il primo gennaio 2024, il Governo italiano, all’insaputa del Parlamento, ha posto così fine a un’anomalia, all’interno del G7, che vedeva, in termini fortemente osteggiati da Washington, l’Italia come unico paese ad aver firmato un accordo che si chiama “Via della seta”. Solamente l’asservimento agli ordini di Washington può spiegare questo ennesimo voltafaccia italiano e il ritiro da un progetto a lungo termine, sicuramente vantaggioso per il nostro Paese. In tal senso si espressero nel 2017, nel corso di visite ufficiali a Pechino, il Presidente Mattarella e i protagonisti della negoziazione del memorandum, il Ministro Alfano e, successivamente, il Presidente del Consiglio Gentiloni. In una lectio magistralis alla Shanghai Fudan University intitolata “Le nuove vie della seta e della conoscenza”, il Presidente della Repubblica Italiana definì la BRI come un nuovo importante asse nelle relazioni fra i continenti, auspicando la moltiplicazione delle Vie della Seta e apprezzando il suo significato strategico di unione fra popoli. Dichiarò, dunque, che l’Italia avrebbe partecipato con convinzione a questo ambizioso progetto».

Professor Malighetti, quindi la decisione del Governo sarebbe l’esatto opposto di quanto auspicato da Mattarella?
«Mi sembra di essere stato abbastanza chiaro. Comunque lascerei la risposta ai lettori».

PATRIZIA PERTUSO

 

11 Dicembre 2023
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