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3:52 pm, 7 Luglio 23 calendario

Un tragico errore degli artiglieri Alleati incenerì le Navi di Caligola

Di: Lorenzo Grassi
Un tragico errore
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Un tragico errore fatto di tritolo e fosforo, un tremolante “lumicino” nelle tenebre e due batterie di artiglieria (una nazista e una degli Alleati) rimaste sconosciute. Sono gli elementi chiave intorno ai quali si dipana un suggestivo “cold case” bellico rimasto irrisolto da quasi 80 anni. Ovvero da quella notte tra il 31 maggio e il 1 giugno 1944 nella quale un violento rogo scoppiò all’interno degli edifici del Museo delle Navi, sulle sponde del lago di Nemi, riducendo in cenere le due imponenti “case galleggianti” dell’imperatore Caligola che erano state fatte riemergere dalle acque solo 12 anni prima con una spettacolare e impegnativa operazione di parziale svuotamento del bacino vulcanico. Un salvataggio sfruttato a pieno da Mussolini per la propaganda di regime. La Commissione ufficiale di inchiesta chiamata subito a far luce all’epoca sulle cause dell’incendio e sui responsabili della gravissima perdita archeologica – le navi di Nemi erano reperti unici per lo studio della mirabile tecnica navale romana – giunse alla conclusione che, «con ogni verisimiglianza», il rogo era stato «un deliberato atto vandalico dei militari tedeschi» che in quei giorni avevano piazzato una batteria di artiglieria a poca distanza dall’area di rispetto del museo. Un’attribuzione “con il dubbio” che non ha messo la parola fine alla vicenda e non ha mai convinto pienamente. Tanto che nei decenni successivi è stato un fiorire di contrastanti ipotesi alternative, spesso basate solo su voci e supposizioni, sino alle più fantasiose.

Un tragico errore e una svolta storiografica

Ora però due tenaci storici e profondi conoscitori delle vicende dei Castelli Romani – Flavio Altamura e Stefano Paolucci – hanno pensato bene di sottoporre a rigorosa revisione critica tutti gli elementi a disposizione. In dieci anni di ricerca ne hanno trovati molti inediti – documentali e fotografici – hanno svolto sopralluoghi sul campo e soprattutto hanno potuto contare su conoscenze tecniche innovative, come quelle sviluppate di recente nel campo delle investigazioni sull’innesco e la propagazione degli incendi. Sono così venute presto a galla le tante omissioni e le troppe incongruenze (a partire dalle testimonianze dei custodi, tutt’altro che “concordi e precise” come aveva scritto la Commissione) alla base della formulazione di un giudizio di colpevolezza che – complici le pressioni del periodo storico-politico, con Roma appena liberata dagli Alleati – sembrava essere stato scritto per chiudere in fretta un capitolo scomodo, a prescindere dalle evidenze dei fatti (come, ad esempio, l’assenza di qualsiasi presunta benzina versata sulle navi, l’assenza di vandalismi sugli altri reperti presenti nel Museo e l’assenza di manomissioni ai dispositivi antincendio).

Un libro con la spiegazione più semplice

Lo studio di Altamura e Paolucci – raccolto nel libro “L’incendio delle navi di Nemi. Indagine su un cold case della Seconda guerra mondiale” edito da Passamonti – ha ribaltato le parti. «La nostra ricostruzione sembra scagionare i militari tedeschi – scrivono gli autori – volendo porre la vicenda nei termini di un giallo con delitto, si dovrebbe infatti constatare come manchi a loro carico qualunque prova che li possa collocare sulla “scena del crimine” (occasione); in secondo luogo, manca qualunque spiegazione su come avessero potuto materialmente incendiare le navi senza ricorrere all’uso di lanciafiamme o sostanze infiammabili (mezzo); e in terzo luogo, manca un motivo convincente che li avrebbe potuti spingere a commettere un tale scempio (movente), se si esclude quello labile e pregiudiziale prospettato dalla Commissione, e cioè che i soldati della batteria, “certamente fanatici”, bruciarono le navi come definitivo atto vandalico».

La dura battaglia dei Colli Albani

Eppure una dinamica dei fatti alternativa è stata da sempre sotto gli occhi di tutti: «Per tentare di capire cosa fosse successo quella sera – precisano Altamura e Paoluccisarebbe bastato partire dalla spiegazione più semplice, il famoso “rasoio di Occam”, prendendo in considerazione l’assai probabile correlazione tra il cannoneggiamento degli Alleati e l’incendio». Negli ultimi giorni di maggio del 1944, infatti, le forze alleate erano riuscite a penetrare la linea difensiva tedesca dopo mesi di estenuanti combattimenti sul fronte di Anzio: era quindi necessario colpire le retrovie e indebolire la capacità offensiva del nemico. Gli scontri sui Colli Albani erano furiosi e montava la fretta dei comandi per arrivare a Roma. La sera dell’incendio, tra le 19.50 e le 20.15, l’area del Museo fu sottoposta ad un intenso cannoneggiamento americano da parte di batterie posizionate tra Cisterna e Velletri, mirato a neutralizzare la postazione di artiglieria tedesca sulle rive del lago di Nemi. Colpi effettuati “alla cieca” per la copertura dei rilievi, basandosi su coordinate desunte dalle ricognizioni dei giorni precedenti: così almeno quattro granate con esplosivo ad alto potenziale (imbottite di tritolo o forse anche di fosforo incendiario) avevano centrato per errore l’edificio e aperto grossi fori passanti sul tetto, con ricaduta di schegge incandescenti all’interno.

Il “lumicino” del rogo che covava

Uno dei custodi verso le 21.20 del 31 maggio vide agitarsi nel museo un “lumicino”. Secondo la tesi ufficiale era la prova dei tedeschi all’opera per il sabotaggio. Secondo la nuova rilettura, invece, il bagliore tremolante altro non erano che le fiammelle che stavano progressivamente estendendosi. Il fuoco che “covava” e che poi sarebbe esploso con forza inarrestabile verso le 22 coinvolgendo entrambi i padiglioni del museo, senza lasciare scampo ai relitti. L’unico esperto di esplosivi presente nella Commissione, il tenente colonnello Fuscaldi, non solo notò che i colpi avevano causato bruciature sulla copertura del tetto, ma fece mettere a verbale che «schegge con esplosivo bruciante ancora aderente o proiezioni di esplosivo bruciante avrebbero potuto appiccare l’incendio». Non fu ascoltato. Eppure si tratta di una modalità che i moderni metodi di “fire investigation” confermano in pieno, sia nelle dinamiche fisiche che nelle tempistiche, grazie all’azione combinata dell’esplosione di una granata che produce “fireball”, irraggiamento termico, schegge roventi, residui di esplosivo e “firebrand”. Soprattutto avendo a portata materiali facilmente infiammabili come quelli che costituivano le antiche navi.

«Le vite dei soldati contano di più»

Secondo questo scenario, dunque, le truppe tedesche avrebbero una responsabilità indiretta nel disastro, avendo collocato nelle vicinanze del museo – sito culturale protetto, cosa a loro ben nota – la batteria di cannoni che attirò il contrattacco nemico. Da parte alleata, invece, si sarebbe trattato di un involontario “effetto collaterale” della dura battaglia in atto. Un effetto messo in conto, perchè anche a loro era ben nota la presenza dei preziosi relitti romani. Del resto lo stesso generale Eisenhower, futuro presidente degli Stati Uniti, era stato chiarissimo: «Se dobbiamo scegliere tra distruggere un edificio famoso e sacrificare i nostri uomini, allora le vite dei nostri uomini contano infinitamente di più e gli edifici dovranno cadere». «Proprio questo riteniamo sia avvenuto a Nemi nel 1944 – concludono Flavio Altamura e Stefano Paolucci – dove la liberazione dal nazifascismo ha chiesto in tributo anche le due sfortunate navi di Caligola. Scampate all’acqua per morire con il fuoco».

7 Luglio 2023
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