A proposito del clamore sulla minigonna
Sentirsi libere di vestire come si preferisce. Come ci si sente. Nessuno può più sindacare questo assunto. In questa parte di mondo. Teniamo fuori dalla riflessione l’altra parte, per non macchiare di minuscolo questo diritto occidentale.
Non mi sono mai sognato di giudicare il look delle mie figlie. La verità è che non mi sono mai preoccupato di come si veste chiunque. Dalle donne amate agli sconosciuti. Rispetto il bisogno di tutti. Me ne fotto, in sostanza.
Solo quando la moglie, o la figlia mi si posano davanti, chiedendo “Ti piaccio?” rispondo. Ma hanno già comunque deciso, da te vorrebbero solo conferma. E io sono diventato bravissimo a confermare.
Succede per un appuntamento o incontro che richiede un’attenzione particolare, pensata apposta, quella “situa” che guarda caso non le fa sentire proprio libere libere, di vestire come preferiscono. Come si sentono. È il grande dramma, e il grande divertimento, dello scegliere l’outfit. Devono sentirsi adatte. Non devono stonare. Ma devono anche risaltare, essere in qualche modo uniche, riconoscibili. In questo bilanciamento si esalta lo stile. Questo è quello che ho imparato avendo tre donne in casa.
E veniamo alla cronaca. Il clamore scatenato dalla minigonna a scuola. Le colpe dei maschi guardoni, o delle femmine ragnatela, e il conseguente ribellarsi. E vabbè.
Solo che è tutto scenografico, senza passione, le vedi, si divertono a contestare, perché non c’è nulla che le ferisca davvero. È indignazione del futile! La donna del secolo scorso per molte ragazze è fantascienza, cara Rossana Rossanda.
Se a scuola hai bisogno di far lampeggiare la mutandina, i tuoi compagni di classe esulteranno. E fossi un professore condividerei una rapida e istintiva occhiata, che in fondo ti aspetti, ma non direi nulla, non te lo impedirei mai: se non lo intuisci da sola che il luogo ha uno scopo che esula dalla tua coscia in bellavista, penserei che questo scopo, per te, sia secondario.
MAURIZIO BARUFFALDI
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