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5:00 am, 21 Maggio 24 calendario

“Antropologə per la Palestina”, Van Aken: «Decolonizzare i saperi»

Di: Patrizia Pertuso
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Dopo gli studenti pro Palestina, sono ora gli antropologə delle Università di tutta Italia a mobilitarsi per il “cessate il fuoco” e non solo. Lo fanno lanciando un appello che, in poche ore dalla sua pubblicazione, aveva già superato le 200 adesioni. A spiegare di cosa si tratta, Mauro Van Aken, docente di Antropologia Economia all’Università Milano-Bicocca, uno dei 20 promotori dell’iniziativa.

Avete lanciato “Antropologə per la Palestina”, un appello pubblico alle istituzioni e alle università in cui scrivete: “riteniamo necessario prendere posizione contro un progetto il cui carattere genocidario è ormai evidente, mettendo in campo gli strumenti della scienza antropologica per riconoscere i legami tra sapere e potere, ovunque essi emergano”.

«L’appello nasce da un dossier redatto da un gruppo auto convocato di antropologhe e antropologi delle università italiane dal titolo “Antropologia, dibattito pubblico e diritto internazionale sul ‘possibile’ genocidio in Palestina”, pubblicato il 17 febbraio non solo in risposta all’attenzione internazionale e alla gravità di ciò che stava accadendo nella Striscia di Gaza, ma anche rispetto a una lettura più storica riguardante la decolonizzazione dei saperi e soprattutto la colonizzazione che si cela dietro quello che viene chiamato “il conflitto arabo israeliano”. Si voleva porre l’attenzione sull’interazione tra i saperi dell’università e i processi di disumanizzazione messi in atto. Questo appello nasce, quindi, dalla necessità di ribadire che dietro a quello che sta avvenendo c’è una storia fondata sul concetto di “colonia”: una forma particolare, laboratoriale e paradigmatica di colonizzazione messa in atto già da molti anni».

Nel vostro appello scrivete che si tratta di un “etnocidio avviato già nel 1948 contro la popolazione palestinese”.

«È una questione che ha a che fare con studi ormai comprovati di storici, israeliani e non, e di antropologi. La questione fondamentale è quella della colonizzazione, della rimozione di un popolo, del mito “una terra senza popolo, per un popolo senza terra”. Si tratta di un laboratorio coloniale che, in questo caso, diventa un modello, spesso globale, di tecniche di governo e repressione. Sulla colonizzazione insediativa si basa una parte importante della politica nazionalista di Isreaele, uno Stato che non ha confini e che ha avviato un’integrazione avvenuta attraverso un processo di segregazione nei territori occupat; uno Stato che ha messo in atto una rimozione continua dell’esistenza del popolo palestinese. C’è una storia che nasce nel 1948, continua nel 1967, ed è la storia su cui si sono giocate diverse identità e posizioni israeliane. Quello che ha preso piede con il processo di pace e la morte di Rabin è stato un processo di completa annessione infrastrutturale, una “architettura dell’occupazione” e di negazione dell’Altro, un processo di destrutturazione della possibilità stessa di uno Stato e di un territorio autonomo palestinese. I livelli di disumanizzazione degli ultimi 4 o 5 mesi, dopo l’attacco di Hamas, hanno posto l’attenzione su quella forma coloniale. continuamente rimossa da una parte imponente della popolazione israeliana, nonostante la resistenza quotidiana alla repressione e subalternità, la tessitura di relazioni di fronte all’esproprio e le manifestazioni non violente, ugualmente represse, come è avvenuto nella prigione di Gaza solo qualche anno fa».

Qual è il ruolo delle università in tutto questo?

«La disumanizzazione e la colonizzazione spesso hanno trovato un luogo di normalizzazione attraverso le università per quanto riguarda la ricerca militare. Non ci si riferisce solo ai carri armati, ovviamente. I territori occupati rappresentano una integrazione per segregazione, e nella Striscia di Gaza si è proceduto a segregare confinando, attraverso continue forme di violenza strutturale, anche attraverso la pianificazione agricola, l’estensione urbana coloniale, l’esproprio continuo di acqua e terra in atto da decenni. Un popolo che nonostante la frammentazione del suo tessuto sociale ed economico, esposto ad una dimensione quotidiana arbitraria, ha continuato, soprattutto nel caso delle donne, a tessere altre relazioni e forme di umanità. Già da tempo si dibatte sulla questione di Israele in termini di un’etnocrazia più che di una democrazia e questo è un dibattito a cui i saperi sociali hanno preso parte. Le università – e noi siamo lavoratori dell’università – hanno avuto un ruolo centrale nell’occultare costantemente il processo coloniale, tanto più sperimentale come in questo caso. Perciò è necessario decolonizzare i saperi mostrando i legami che essi intrattengono con queste dinamiche di potere, per non rimanere nell’impotenza o nella mera indifferenza».

Sempre nel vostro appello si legge: “nove rettori delle università israeliane, ricorrono alla menzognera retorica dell’antisemitismo e del terrorismo per oscurare il carattere democratico e spontaneo delle proteste che a livello internazionale si stanno levando nelle università”, e che ciò “non permette più di affermare che le università israeliane siano luoghi ‘neutrali’”. Secondo voi la “menzognera retorica dell’antisemitismo e del terrorismo” viene usata come mezzo per poi praticare un’ulteriore forma di terrorismo?

«In questo momento c’è un livello tale di polarizzazione e di censura in Israele, che si esplica manipolando le antiche dicotomie – ebraismo/musulmani, Occidente/Medioriente – con cui si astrae la violenza strutturale di questa realtà coloniale: ciò ha portato anche a una forma di appropriazione molto pericolosa di critica a Israele e giudizi di antisemitisimo. Israele non rappresenta tutti gli ebrei del mondo e molti di questi sono critici se non contrari al sionismo come ideologia. Tra questi anche molti antropologi. Negli ultimi 5 mesi, in seguito ad accuse di antisemitismo, ricercatori, giornalisti, attori, talvolta anche israeliani o della diaspora ebraica, sono stati censurati o hanno perso il lavoro per le loro prese di posizione nelle università, ma anche in altri settori. Con queste azioni si vuole evitare ogni critica all’attuale politica delle forze militari e al nazionalismo israeliano. Allo stesso modo, viene rimosso il fatto che esistano dei palestinesi, in una storia di sopraffazione e colonizzazione continua, denunciata dall’Onu e da tantissimi altri attori, che è andata avanti proprio perché i rapporti si sono normalizzati nel falso discorso di un processo di pace che, negli ultimi trent’anni, non poteva imboccare nessuna strada percorribile con l’esproprio insediativo continuo. Rispetto alla decolonizzazione dei saperi, questo aspetto diventa paradigmatico della modalità con cui l’Occidente è visto dai vari Sud del mondo attualmente impegnati nelle lotte e vittime di soprusi e ingiustizie, per l’evidente volontà di rimuovere la colonizzazione e le sue dimensioni economiche, militari e sperimentali. I territori occupati, che di per sé non sono grandi territori, rappresentano però una delle principali vie dell’export israeliano: export di software, di tecniche di controllo, di modelli di guerra urbana e antiterrorismo in tutto il mondo. Ed è questo il punto più preoccupante. Non c’è più visione di futuro nella perpetuazione coloniale nei territori occupati se non la decolonizzazione e l’autodeterminazione, a Gaza, ormai resa inabitabile e non solo».

Alcuni affermano che chi sostiene i palestinesi dimentica l’attacco di Hamas del 7 ottobre come se ci fosse una sovrapposizione o meglio un’identificazione totale tra Hamas e la Palestina.

«Spesso si pensa che chi sostiene i palestinesi convalidi l’attacco disumanizzante che Hamas ha compiuto per mettere a tacere le complessità, la storia, l’interconnessione e le tessiture per altri futuri possibili. Rispetto a questa convinzione, c’è un primo aspetto storico da analizzare. Edward Said, importante intellettuale palestinese, scrisse, trent’anni fa, che ci si trovava di fronte alla tragedia di essere “vittima delle vittime”, riconoscendo la necessità, come in altro modo è avvenuto in Sud Africa, di riconoscere i lutti e l’umanità dell’altro. C’è un popolo che non viene riconosciuto, anzi c’è un’attiva e quotidiana rimozione del fatto che esista. Molti israeliani e chi si ispira esplicitamente alla cultura ebraica hanno continuato a lottare e tessere altre relazioni di riconoscimento, consapevoli che qualsiasi idea di pace per Israele poteva nascere solo con la decolonizzazione e con il riconoscimento dei diritti dei fratelli e delle sorelle vicini. È un aspetto della polarizzazione che riduce tutto a “conflitto”, ignorando le modalità che, nel corso dei decenni, hanno portato alla configurazione attuale. Qualsiasi critica mossa a Israele innesca il rischio di essere stigmatizzata come antisemitismo. Se si è “vittima delle vittime”, questa condizione apre all’interconnessione, nel riconoscimento comune delle sofferenze inflitte e ricevute e nella dimensione intollerabile di questa forma di colonizzazione.  In termini di tessuti umani, i territori occupati sono già Israele, i colonizzati e i colonizzatori paradossalmente si sono imitati, intrecciati culturalmente, ma negli ultimi decenni si è lasciata esplicita mano libera a idee suprematiste dei coloni, come popolo eletto».

Un popolo eletto che ha subìto molto dalla Storia. Gli israeliani hanno vissuto la sofferenza il dolore sulla loro pelle, ma l’interconnessione con i palestinesi non c’è.

«Perché dietro tutto quello che sta accadendo c’è soprattutto un’opera di colonizzazione dalla quale nasce una colonia insediativa e la rimozione di un popolo. È un processo di negazione quasi psicopatologico che ha bisogno di trovare argini. Non li ha trovati nel diritto internazionale, ma nelle università si possono mostrare i tanti altri strumenti che ci sono. Qui non si tratta di dire chi ha ragione tra due litiganti, si tratta di fermare la pazzia totale perché dietro l’attacco a Gaza – che ormai non si sa più bene come chiamare per il livello di devastazione e per il trattamento di uomini, bambini e donne – non ci sono progetti di futuro se non quello di disumanizzazione continua. L’anniversario della Nakba, cioè del disastro del 1948, continua a essere attualizzato per i palestinesi così come continua a essere attualizzato il concetto che la vita quotidiana dei palestinesi sia un dover non esserci più o un doversene andare».

Qual è il prossimo passo dopo questo appello?

«Avviare un dibattito in una dimensione pubblica e politica come stanno facendo tantissimi studenti nelle università italiane e non, per fare pressione sulle istituzioni e per boicottare gli accordi sia militari che con le università israeliane. È una protesta, e le proteste comportano dei sacrifici. La questione del boicottaggio è sempre una scelta difficile, ma è tattica rispetto al momento in cui si è, almeno finché non si fermerà l’attacco che sta rendendo inabitabile de facto Gaza e verranno ristabilite le basi per la vita nei territori fortemente sotto attacco dai coloni. Vorremmo fare pressione, come sta accadendo a livello internazionale, per esprimere la nostra critica in forma generativa, fare quello che la filosofa Judith Butler chiamava la “forza della nonviolenza”».

In questo vostro percorso pensate di affiancarvi, di sostenere o di supportare in qualche modo la protesta degli studenti?

«Rispetto alla protesta degli studenti, il nostro appello è sia parallelo che di supporto: parallelo perché noi ci appelliamo ai lavoratori, a chi lavora o guarda il mondo attraverso l’antropologia. Ovviamente è anche connesso alle proteste degli studenti che stanno occupando spazi pubblici nelle università. La sottoscrizione a questo appello è aperta a tutti, a studenti, docenti, universitari e non, del mondo antropologico, per mostrare che il sapere non è sconnesso da posizioni politiche ed etiche, chiuso in una scienza pura, ma come il caso citato nell’appello sul Vietnam, interpella il lavoro che facciamo e crea anche ponti e proteste generativi».

PATRIZIA PERTUSO

21 Maggio 2024
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