Intervista con Contrada
12:01 am, 21 Luglio 17 calendario

Adesso mi restituiscano la mia divisa e l’onore

Di: Redazione Metronews
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PALERMO «Questi venticinque anni mi hanno creato una corazza, non fisica come quella della tartaruga, ma spirituale e morale, che mi rende quasi insensibile alle emozioni. Sia a quelle bianche sia a quelle nere». Così un vecchio, malandato e stanco, ma mai domito Bruno Contrada ci accoglie in casa sua, al 6° piano di una palazzina popolare del quartiere Uditore. Un piccolo e cadente appartamento, foderato di carta e moquette, inzeppato di quadri, libri, documenti, tra campanelle e pupi siciliani che penzolano dal soffitto o da vetusti lampadari del tempo che fu.
Ottantasei anni sulle ossute spalle, le braccia piagate, conseguenza di un diabete mal curato, l’ex superpoliziotto – sotto lo sguardo amorevole della moglie Adriana che gli è sempre stata accanto – non si sottrae alle domande. «Il telefonino non la smette di squillare dal 7 luglio» dice sorpreso: da quando la Corte di Cassazione ha revocato la condanna a 10 anni inflitta all’ex n.3 del Sisde molti vogliono intervistarlo.
Contrada, se l’aspettava la notizia della Suprema Corte?
Sinceramente no. Ero scettico e pure pessimista. Di fatti in Italia dal ’92 ne sono successi tanti e gravissimi, dunque era normale che la vicenda di un piccolo cittadino come me finisse nel dimenticatoio. Mi aspettavo che tutto si sistemasse alla notizia della morte del dottor Contrada: allora sarebbe stata mia moglie a ricevere le telefonate al posto mio.
E adesso che farà?
Attendo la pronuncia del Consiglio di Stato riguardo all’aspetto amministrativo, contabile, economico e di carriera. Ho chiesto il reintegro, ma finché non me lo danno metterò il cappello che Fausto Del Vecchio, presidente dell’Associazione Nazionale Carabinieri di Fiumicino mi ha regalato, in sostituzione del mio di PS (precisa orgoglioso, indossando il berretto dell’Arma, ndr).
Lei è uno dei pochissimi in Italia ad aver scontato la pena.
E l’ho scontata tutta, integralmente. Perché Bruno Contrada rispetta le sentenze, anche se moralmente non ha accettato quelle che in maniera ingiusta l’hanno colpito. Invece ci sono altri che avrebbero un dovere maggiore del mio di rispettarle, perché ne sono gli autori  – e parlo di magistrati, e in particolare di uno di Palermo e di uno di Torino, uno che adesso fa l’avvocato e un altro che fa il pensionato – che non rispettano le decisioni dei colleghi.
A chi si riferisce precisamente?
Io non voglio fare nomi. Altri li tirino fuori.
Ma Contrada come risponde agli attacchi?
Dall’inizio della vicenda mi sono impegnato solo a difendermi a tutti i costi con mezzi legali, senza infangare nessuno. Non sono fuggito, anzi, appena saputo che la Cassazione aveva confermato la condanna, pregai l’avvocato di correre alla Procura generale di Palermo e sollecitare l’emissione dell’ordine di carcerazione. E la sera stessa ero in carcere a Santa Maria Capua Vetere. A maggior ragione, i due signori che sono stati magistrati hanno il dovere di rispettare le sentenze specialmente quelle della Suprema Corte di Cassazione.
In attesa del risarcimento (calcolato in svariati milioni) la sua vita ora come sarà? Che farà?
Tutto per i miei figli che hanno sofferto tantissimo a causa di ciò che mi è accaduto. Il più grande, avvocato, sposato con tre bambini, ha sopportato bene il colpo al mio arresto. Invece, Antonio, il più piccolo, che ha una figlia, allora era ventenne ed era appena entrato in polizia come agente ausiliario, è stato distrutto. Avevano arrestato non solo il padre, ma anche il dirigente generale della polizia di Stato, il suo capo, la sua figura di riferimento. Caduto in una depressione cronica, è stato anche colpito da ipertrofia cardiaca causata, pare, dai farmaci assunti per curare la mente.
La sua vicenda ha avuto diversi effetti collaterali.
Sicuro, a parte mio figlio, anche mio cognato, il marito di mia sorella Anna, già generale dell’esercito andò in pensione in anticipo per lo sconforto. La fortuna? I miei genitori sono stati chiamati prima dal Padreterno, altrimenti avrebbero avuto un colpo apoplettico, specialmente mio padre: lo Stato, le istituzioni, i valori morali erano tutta la sua vita.
L’esperienza è quella cosa che prima ti dà una lezione e poi te la spiega, scrive Oscar Wilde. Che lezione Contrada ha ricavato dalla sua?
Potrei dire tante cose sull’argomento, ma ai giovani innanzitutto direi di non perdere mai la fiducia nello Stato, nella Giustizia, nelle Istituzioni che devono sempre godere del rispetto e poter contare sull’attaccamento dei cittadini, anche se in alcune contingenze o situazioni particolari, ci sono rappresentanti delle stesse che sbagliano o che non compiono il loro dovere e tradiscono il giuramento di fedeltà. Mai confondere gli uomini con le istituzioni, non disprezzare mai la polizia se qualche suo appartenente sbaglia né la magistratura se qualche magistrato commette errori nell’adempimento del suo dovere. È un’esortazione che mi sento di dare sia ai cittadini che ai servitori dello Stato. Poi, non perdere mai la fiducia in se stessi e lottare senza mai arrendersi, sino all’ultimo respiro, con tutti i mezzi legali, per raggiungere il fine dell’accertamento della verità e, quindi, della giustizia, perché la giustizia si ha tramite le verità.
Ma dove ha trovato la forza di lottare e resistere?
In questi valori e convincimenti, unitamente all’incrollabile consapevolezza della mia non colpevolezza.
Si è sempre definito, prima di tutto, un servitore dello stato, ma durante la prigionia…
Anche nei periodi di detenzione, da Forte Boccea al carcere militare di Palermo a Santa Maria Capua Vetere, talvolta mi sembrava di continuare a servire lo stato rendendomi utile con l’esempio, con i miei consigli ed esortazioni, dando conforto agli altri detenuti.
Un ricordo in proposito?
C’era un ragazzo, agente della polizia penitenziaria a Forte Boccea, che dopo la liberazione venne a Palermo a trovarmi. Mi confessò che aveva desistito dal proposito di togliersi la vita grazie al sostegno morale che gli avevo dato.
È vero che anche lei è andato vicino al suicidio?
No, mai! Sì, ero dimagrito di 20 kg dopo la carcerazione preventiva, ma per una crisi di diabete mellito: il rancio, non era compatibile con la malattia. E ci tengo a precisare che non ho mai fatto lo sciopero della fame.
Vedo che conserva nel suo archivio anche il Libretto del detenuto!
Sì, tutti lo bruciano o lo strappano quando escono di prigione: io, invece, lo tengo perché non voglio dimenticare niente!
Contrada, ha una domanda da fare su quanto le è successo e a chi?
Io sono stato giudicato dal popolo italiano, ma il popolo italiano, nel cui nome sono stato giudicato e condannato, che ne pensa di un giudizio emesso a nome suo? Tutto l’impianto accusatorio del mio processo si è basato sul mio presunto rapporto con Rosario Riccobono che io avevo perseguito e che poi scomparve, disciolto nell’acido con i suoi guardaspalle. Era uno dei mafiosi più denunciato da me: lo portai in Corte d’Assise per farlo condannare: ma nel 1977 fu assolto col suo emergente braccio destro, Gaspare Mutolo, il primo mafioso che poi mi accusa. Dunque, che un poliziotto denunci un criminale e tenti di farlo condannare e che il giudice non ritenga sufficienti gli elementi di prova e lo assolva è fisiologico. Ma che poi quello stesso giudice che ha assolto Riccobono condanni quel poliziotto-Contrada che lo ha denunziato, perché dice che è complice e amico del mafioso, non mi pare più fisiologico ma patologico o almeno anomalo.
Come spiega la sua caduta in un momento in cui era all’apice della carriera?
È un coacervo di cause e l’episodio va contestualizzato. Era il 1992, anno terribile per la Repubblica Italiana: tangentopoli a nord è morta e a sud c’è “mafiopoli”.  Si doveva distruggere la classe politica che aveva retto l’Italia, la Dc, il Psi emergente, ago della bilancia, qualcuno aveva iniziato a colpire il Pci ed è stato bloccato. Distrutta la Dc e il Psi, il Pci cambia faccia con Occhetto già dopo la caduta del muro e nell’aprile del 1994 avrebbe preso il potere in Italia se non fosse stato per l’imprevista discesa in campo di Berlusconi, che non mi piace, ma è stato uno statista. Non come Cavour, De Gasperi e anche Mussolini, ma un piccolo statista: Berlusconi ha mutato la fisionomia della Repubblica. Quindi: distruzione della classe politica, della classe dirigente legata alla classe politica, dei servizi, della polizia considerata appendice della politica, apparato investigativo e classe giudiziaria (vedi l’accanimento contro Corrado Carnevale). Bisogna tener presente, poi, che quando si prende un poliziotto e lo si dà in pasto ai criminali questi hanno un odio atavico tale nei confronti dello sbirro che le accuse andrebbero vagliate con maggior rigore. Senza considerare la forte pressione psicologica dell’investigatore che vuol sapere quella cosa, e la previsione della libertà, dello stipendio e la possibilità di continuare a fare quel che si fa da pentito. Quelli che mi hanno accusato erano persone che avevo perseguito come criminali mafiosi, soprattutto quel Mutolo. Gettando fango su di me prendevano due piccioni con una fava.
 
IL CASO CONTRADA
Il 7 luglio 2017 la Corte di Cassazione revoca la condanna a 10 anni inflitta all’ex 007 Bruno Contrada per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Per anni poliziotto a Palermo, Contrada viene arrestato il 24 dicembre 1992 e condannato a 10 anni. Sentenza ribaltata in appello con l’assoluzione. La Cassazione annulla con rinvio e la Corte d’Appello nel 2006 conferma la condanna, ora revocata dalla Cassazione. Nel 2015 la Cedu condanna l’Italia a risarcire il poliziotto, ritenendo che non dovesse essere neppure processato (perché all’epoca dei fatti il reato “non era chiaro né prevedibile”).
 
ORIETTA CICCHINELLI

21 Luglio 2017
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