Teatro
7:13 pm, 9 Ottobre 23 calendario

Tre giorni con Barba tra il LAFLIS e il Salento: il Terzo Teatro torna a casa per festeggiare 50anni

Di: Patrizia Pertuso
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LECCE «Che questo sia un nuovo inizio in cui il Terzo Teatro venga finalmente riconosciuto»: ad augurarselo è Eugenio Barba, dal chiostro della Biblioteca Bernardini di Lecce per l’inaugurazione del Living Archive Floating Islands. È una festa la nascita del LAFLIS e quelle “isole galleggianti” che una volta erano piccole realtà teatrali disseminate in tutto il mondo diventano enormi palloni bianchi che invadono l’ingresso della Biblioteca in piazza Giosuè Carducci.

Mr Peanut accompagna il pubblico alla performance dell’Odin del TTB e del Potlach

Mr Peanut – “maschera” storica dell’Odin Teatret con, al posto del volto, un teschio a rendere viva la Morte – accompagna lì il pubblico dal vicino Museo Castromediano – dove si sono svolti eventi, incontri e presentazioni di libri – incitandolo a camminare per le strade della città salentina. Poi, a lui, si aggiungono altri personaggi sui trampoli che svettano tra chi segue questa strana parata: sono gli artisti del Teatro Tascabile di Bergamo e del Teatro Potlach di Fara Sabina (Rieti) che danzano sulle note di uno struggente walzer.

Sarà per l’ora che tende all’imbrunire, sarà per le fievoli luci della città che cominciano ad illuminare la pietra leccese, sarà per i tanti che si sono ritrovati parte integrante di una performance, fatto sta che ciò che accade in quella piazzetta è qualcosa di magico.

L’inaugurazione del LAFLIS è una festa con enormi palloni bianchi

Gli enormi palloni bianchi si impossessano del luogo rimbalzando da una parte all’altra – una sorta di “tempesta perfetta” in cui i venti di emozioni condivise danno forma ad una “comunità” nuova. I primi a buttarsi sono i bambini: all’inizio increduli, poi liberi di partecipare e di vivere con il loro corpo questo momento, senza bisogno di parole né di domande. Poi, i genitori, gli adulti, li seguono: fra loro, gente comune che si trova a passare lì per caso, ma anche studiosi di teatro, critici, giornalisti, professori universitari, ricercatori provenienti da ogni parte del mondo. Tutti si lasciano andare e giocano. Quel gioco si fa Teatro. Quel Teatro che nel 1974 ha iniziato a prender forma poco distante da Lecce, a Carpignano Salentino, con la prima esperienza di “baratto” di Eugenio Barba e del suo Odin.

Il Teatro è festa e la festa è quella delle emozioni che danzano sui trampoli in un tempo extra quotidiano rubato alla vita di tutti i giorni. Il Teatro è energia, la stessa che coinvolge il centro di Lecce e lo assorbe, lo abbraccia e lo trascina con sé.

The Magdalena Project, Julia Varley racconta le donne di teatro

Il Teatro – meglio, il Terzo Teatro – è una Julia Varley instancabile che con The Magdalena Project, da anni lavora, come spiega lei stessa, «in una rete in cui le linee che si intrecciano sono quelle di diverse donne; le loro identità sono gli spazi vuoti che si creano all’incrocio delle linee: vengono riempiti da ciascuna di noi e dalle motivazioni di ogni persona che entra a farne parte. La mia motivazione partiva dalla volontà di mettere in primo piano le donne nella storia del teatro che Eugenio (Barba, ndr) ha sempre raccontato».

Mattea Fo ricorda la grandezza di Franca Rame

Il Teatro è quello che supera il genere e non per questo è “femminista”, come racconta Mattea Fo, nipote di Franca Rame, in un incontro al Museo Castromediano, quando ricorda sua nonna con le sue stesse parole: «Io non sono femminista se le femministe sanno solo piangersi addosso – diceva Franca Rame –. Abbiamo bisogno di fare, non di piangere».  E aggiungeva, rispetto al suo rapporto con Dario Fo: «Sono stata il piedistallo di una grande scultura». Un piedistallo che faceva imparare alle attrici le battute degli spettacoli in cucina, dietro ai fornelli, mentre girava il risotto: «Le faceva ripetere – racconta ancora Mattea Fo – finché non venivano naturali. Così aveva imparato da sua madre: era abituata a recitare sul palco e, contemporaneamente, a far capire ai tecnici come aggiustare le luci. Diceva di ‘recitare all’improvvisa’, non di ‘improvvisare’». Durante l’inaugurazione del LAFLIS non si recita né si improvvisa. Si vive quello che accade sulla propria pelle e ognuno partecipa, se vuole, come può.

Barba riporta il baratto a Carpignano Salentino cinquant’anni dopo la prima volta

Il Terzo Teatro è Eugenio Barba che, se nel 1976 ne firmò il primo Manifesto, oggi continua a dar vita a performance che raramente si dimenticano. A Carpignano Salentino, per esempio, nessuno ha dimenticato la “calata dei danesi” nel 1974, un gruppo di poche persone (c’erano oltre Barba, Elsa Kvamme, Iben Nagel Rasmussen, Torgeir Wethal, Odd Strom, Jan Torp Roberta Carreri), che abitavano rinchiuse in quello che una volta era un castello e oggi è un edificio in ristrutturazione. Vivevano lì e ci erano arrivati senza nessun progetto.

«Sentivo il bisogno di nuovi spazi, di geografie diverse rispetto a quelle della Danimarca – racconta Barba -. Scelsi Carpignano Salentino, un posto dove non c’era mai stato il teatro. All’inizio vivevamo rinchiusi perché non volevamo rompere quel vetro di silenzio e tranquillità che avvolgeva il luogo e chi ci abitava. Dopo pochi giorni ci era ben chiaro che non volevamo mettere in scena uno spettacolo dell’Odin al chiuso. Avevamo bisogno di altro».

Elsa Kvamme racconta L’arte dell’impossibile, i carpignanesi la “calata dei danesi”

L’“altro” era il rapporto creato con la gente del posto, prima diffidente e poi “partecipante”. È così che è nato il baratto. Lo racconta il documentario di Elsa Kvamme, L’arte dell’impossibile del 2016. Lo racconta anche, dall’altro punto di vista – quello dei residenti – il docufilm MilleNovecento74. I carpignanesi e l’Odin, in cui le immagini si fondono alle testimonianze dirette. Lo raccontano, infine, il consigliere con delega alla Cultura del comune di Carpignano, Salvatore Rizzello, e poi Nino e Caterina: il primo, all’epoca non era nato, ma i suoi genitori gli hanno mostrato le foto di quell’“invasione artistica”. Le immagini troneggiano ora sui muri della cittadina, tra un’abbazia bizantina risalente al IX secolo e un antichissimo frantoio ipogeo dove, dalle olive, si traeva l’olio per l‘illuminazione.

La Festa Te lu Mieru nasce dopo la prima esperienza di baratto

«Dopo che Eugenio se ne andò da Carpignano – dice Rizzello – la gente di qui sembrava essersi risvegliata: aveva iniziato a sentire il bisogno di “festa” e di comunità. Da quella necessità è nata la Festa Te lu Mieru, la festa del vino, che ogni anno si svolge tra agosto e settembre».

Due generazioni: la pizzica di Nino e Caterina interpretata oggi da Fabiana Serrone

Nino e Caterina, invece, negli anni Settanta c’erano e parteciparono in prima persona al baratto: dopo che “i danesi” avevano raccontato la storia di un angelo che taglia la testa al diavolo calandosi dalla cima di una casa, con una corda, verso la piazza, loro hanno danzato, sulle note di un tamburello e di una fisarmonica, la pizzica, la danza popolare pugliese che serviva per liberare le “pizzicate” dal morso della taranta, termine salentino che indicava la tarantola: questo ragno si accaniva contro le donne pungendole sotto le vesti durante il periodo della mietitura.

Oggi, dopo quasi 50 anni, a danzarla è una ballerina giovanissima, Fabiana Serrone, un passato tra danza classica e contemporanea studiata tra l’Italia e New York, che insegna i passi a chi vuole impararli.

Tradizione e innovazione si accolgono a vicenda e si abbracciano. Esattamente come un’altra città aveva accolto Eugenio Barba. E non solo.

Eugenio Barba e Otranto: migrante il primo, città-approdo la seconda

Nel porto di Otranto troneggia l’installazione di una nave di migranti albanesi, la “Kater I Rades” realizzata da Costas Varotsos (il titolo è L’approdo. Opera all’umanità migrante) che, durante il secondo esodo, negli anni Novanta, per sfuggire alla crisi finanziaria e alla guerra avevano cercato di attraversare il mare.

Il 28 marzo 1997, un venerdì santo, la nave affondò durante un inseguimento di una corvetta italiana: morirono 81 persone, ma furono ritrovati i corpi soltanto di 57 di loro; gli altri furono dati per dispersi nel canale di Otranto.

Durante le indagini i resti della nave furono trasportati a Brindisi per essere analizzati e rimessi in sesto: la parte inferiore era completamente squarciata. Solo nel 2011 la “Kater I Rades” fu riportata con un trasporto speciale a Otranto nel punto in cui venne recuperata nel ‘97. Fu proprio lì che lo scultore greco lavorò per creare la sua opera che vide la luce nel 2012: la nave originaria c’è ancora, ma è attraversata – anzi, tagliata – da lastre di vetro orizzontali che creano una sorta di fermo immagine di una tragedia. Una delle tante, avvenuta in uno spigolo di terra che da tempi immemori ha il destino segnato dalla sua posizione geografica. Varotsos vede nel naufragio della “Kader” il segno del naufragio della civiltà europea contemporanea che ha disperso i valori dell’eredità classica, di pietà e umanità. La storia di quella nave diventa così simbolo delle migrazioni di tutti i tempi e di tutte le latitudini, ma si fa anche simbolo di tutti gli approdi e di tutte le terre promesse. Il naufragio diventa rinascita. Esattamente come la storia della città.

De Luca e la città «dove si incontrano genti vestite in diverse fogge del Mediterraneo»

È Luigi De Luca, coordinatore dei Poli Bibliomuseali della Regione Puglia, a raccontare la storia di Otranto.

«Lo storico Varrone scriveva: “dicunt salentini quod pacem fecit a salo” – spiega De Luca –. Il nome Salento viene da “salo”, termine che anticamente rappresentava il mare; questa zona era un crocevia di approdi, di diverse rotte che attraversavano il Mediterraneo da est a ovest, da nord a sud. Il grande orientalista di origine salentina, Francesco Gabrieli, che fu anche presidente dell’accademia dei Lincei, descriveva Otranto verso la fine dell’800 come “un crogiuolo di razze”. Ricordo una frase in cui scriveva che la città era un luogo dove “è possibile incontrare genti vestite in diverse fogge del Mediterraneo”. Persone provenienti da differenti paesi venivano qui per tanti motivi, primo fra tutti il commercio. Questa abitudine si è andata perdendo: con l’affermazione degli stati nazionali le politiche trasportistiche hanno seguito altre logiche che non erano più quelle della vicinanza, ma della geopolitica».

L’invasione dei Turchi

«Molto prima degli albanesi che sono venuti qui negli anni Novanta – prosegue De Luca –, ci furono i Turchi che massacrarono tutti coloro che non vollero convertirsi alla loro fede. Le ossa di queste 800 persone sono custodite nella cattedrale di Otranto. Se oggi si va in uno dei musei archeologici del Salento ci si rende conto di come le testimonianze dei diversi popoli del Mediterraneo si siano depositate su questa terra e ne costituiscano gran parte del patrimonio culturale».

Il sincretismo religioso e il grico

«L’ambito religioso di un tempo era frutto del sincretismo tra la religione cattolica e quella bizantina – spiega ancora De Luca -. Queste terre erano abitate anche dagli ebrei. E, infatti, non c’è un comune nel Salento dove non esista una strada che si chiami via Ghetto. Qui le culture si sono incontrate, depositate e stratificate: ancora oggi in quest’area c’è una minoranza linguistica che parla il grico, ciò che resta a livello linguistico del dialetto che fonde greco antico, greco, bizantino e italiano».

Dalla cultura all’arte

Dalla cultura all’arte. De Luca conclude spiegando che «le chiese bizantine qui sono ovunque. Fino al 1860 in alcuni paesi del Salento c’erano i pope, i parroci bizantini che recitavano messa accanto a quelli cattolici. La chiesa di San Pietro a Otranto è uno degli esempi più eccelsi dell’arte bizantina nella nostra terra. Ecco perché il Salento ha un’identità meticcia».

Eugenio Barba e Gallipoli, un’identità “meticcia”

La stessa “identità meticcia” che ha caratterizzato e caratterizza ancora oggi il lavoro (e anche la vita) di Eugenio Barba. Tocca a lui raccontare la storia di un’altra città salentina fondamentale nella sua vita, Gallipoli. I ricordi sono quelli che riportano alla memoria una città completamente diversa da quella che oggi conoscono tutti.

Barba: «Ero terrorizzato all’idea di sentire le urla del buon ladrone»

«Le mura della città vecchia – racconta Barba – si affacciavano direttamente sul mare. Ho vissuto qui con mia nonna: tutte le mattine si svegliava alle 5 e un’ora dopo svegliava me portandomi sempre un goccio di caffè. Chissà perché lo faceva… Ero un ragazzino all’epoca e avevo paura ogni volta che passavo davanti alla Chiesa di San Francesco: al suo interno ci sono tre croci; su quella centrale è inchiodato Cristo, sulle altre il buon ladrone e il cattivo ladrone. Si diceva che durante la notte del venerdì santo il primo riconobbe l’autorità del figlio di Dio e si mise ad urlare e a strapparsi i vestiti di dosso. Per questo ogni anno bisogna cambiare i suoi abiti. Io ero terrorizzato all’idea di sentire quelle urla».

Barba ricorda le processioni del venerdì santo, rituali spesso ripresi nel suo teatro

L’altra faccia del terrore era la festa, la liberazione dalla paura, la riconciliazione con l’ordine delle cose. «Da quella chiesa – racconta ancora Barba – il venerdì santo partiva la processione con il Cristo morto. Si incontrava con un’altra di una diversa confraternita che trasportava la statua della Madonna con il cuore d’argento trafitto da uno spadino. Le due processioni si incontravano e proseguivano insieme con la statua del Cristo davanti e quella della Madonna dietro.  Arrivati in piazza sulla statua del Cristo veniva posta una coperta e solo la domenica di Pasqua veniva tolta. A quel rito partecipava tutta la città e gli aderenti alle diverse confraternite usavano abiti particolari: ricordo che erano tutti incappucciati».

Come nell’Odin Teatret, la storia di Eugenio Barba e di Gallipoli si mescola a riti e rituali, feste e comunità, teatro e performance. Scende anche nel profondo invadendo la sfera emotiva ed emozionale. «Nella Gallipoli vecchia – racconta ancora il salentino – sotto le mura c’erano degli scogli sui quali vivevano topi enormi. Quando era piccolo si diceva che i pescatori davano da mangiare a questi animali lanciando loro dei gatti vivi. Da quei racconti ha capito cosa significa il termine pietà per l’essere umano».

Eugenio Barba e l’Odin Teatret: le loro esperienze raccolte nel LAFLIS

È la pietas latina, quella che comprende in sé l’amore, il rispetto e la compassione (nel senso di “sentire con”) il fulcro dell’Odin Teatret, un gruppo di “reietti” non accettati nelle accademie di teatro istituzionali e accolti da Eugenio Barba: per tutti l’avventura iniziò negli anni Sessanta. Il LAFLIS offre la possibilità di farla conoscere a chi non sa nulla di loro e di farla ri-conoscere ai tanti che comprendono la grandezza di ciò che hanno fatto in tutto il mondo, nel panorama teatrale e non solo. Il museo è diviso in tre Stanze: in quella bianca c’è l’universo di Eugenio Barba, nella nera gli spettacoli dell’Odin e nella rossa tutto ciò che rientra nelle esperienze del Terzo Teatro. Lungo il corridoio si snodano i pannelli con le locandine degli spettacoli organizzati in una “mostra nella mostra” curata da Peter Bysted, My life with Odin Teatret. Inoltre, al terzo livello, sono stati ricostruiti lo studio del regista salentino e il camerino di Julia Varley. Insomma, nel LAFLIS c’è tutto: i film, i manifesti, le scenografie, i libri che sono stati importanti nella vita di Barba ma anche i tanti scritti da lui. Nell’allestimento di Luca Ruzza nulla è lasciato al caso così come nulla si identifica con il concetto di “museo”: i testi disordinati buttati sugli scaffali nelle librerie, tra marionette vietnamite e maschere balinesi accanto a feticci brasiliani sono un inno alla vita. D’altronde, Barba aveva avvisato tutti: il LAFLIS è «un archivio vivente». Esattamente come il Terzo Teatro che lo stesso salentino racconta nel libro appena uscito, Le mie vite nel Terzo Teatro. Differenza, mestiere, rivolta.

PATRIZIA PERTUSO

9 Ottobre 2023
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