Stefano Pacifici
12:02 am, 13 Luglio 21 calendario

Sir Mancio da Jesi e il vero fair play

Di: Stefano Pacifici
condividi

Ci hanno ammorbato per decenni con il continente isolato dalla nebbia sulla Manica, the umbrella, i black cabs, le bombette, la guida a sinistra, il fair play e deeechiù, come diceva la vecchia acidissima prof delle medie (lo so, si scrive the queue). Ci hanno rimpinzato allo sfinimento con Wembley che è il tempio del pallone, con l’England che è la sua vestale, con sirbobbycharlton e tutto l’ambaradam del rispetto, della civiltà e dell’educazione. Ci hanno bombardato con la retorica degli spaghettimafia, degli italiani gesticoloni, pizzaeaters, mama’sboys e tutto l’abecedario dei luoghi comuni. Ci hanno sfinito persino con l’isolazionismo di una Brexit con gestazione da elefante, “astutissima” operazione contro un’Europa matrigna capace di rinverdire le britanniche magnifiche sorti e progressive, pensata, cercata e portata a casa da un tizio con la birra sempre in mano che ridendo e scherzando (letteralmente) è riuscito a intortare mezza Britannia a pifferate di retorica e fake news sulla sanità. Delle magnifiche e progressive sorti della Brexit (e se sia stata astutissima o meno) discuteremo fra un paio d’anni, quando, conti e bilanci alla mano, vedremo chi da questa venefica mossa ha tratto un segno più da mettere davanti alle cifre, e chi no.
E passino i tappeti di cocci di vetro di birre scolate andando verso Wembley, roba che si vede a ogni partita di premier. Passino pure gli insulti e le minacce da tifoso a tifoso, i petardi sotto l’albergo dei calciatori per svegliarli e metterli subito di cattivo umore. Persino i buuuu a ogni passaggio azzurro di palla. Stiamo ancora alla robetta da stadio. Un po’ greve e assai poco british, a dire la verità, ma vabbè. Non siamo mammolette.
Ma. A. Tutto. C’è. Un. Limite.
I fischi all’inno nazionale straniero, fare a pezzi, calpestare e infangare le bandiere dei “nemici”, sono tutte cose che francamente appartengono più al campionario della propaganda di regimi teocratici. E’ fomento delle piazze ai limiti di un baratro tra coscienza civile e follia. Così come la caccia al tifoso, o la presa di mira razzista addirittura dei propri, di calciatori, rei d’aver sbagliato un rigore. O ancora (stavolta per chi stava in campo e non sugli spalti) il rifiuto della medaglia da secondo.
Che tutto questo si sia già visto, magari anche nelle nostre, di piazze da stadio o di squadre, oppure su quelle ormai fuori controllo dei social, poco importa. Non giustifica. E dunque ora anche basta, con la retorica del fair play. Di very british, domenica sera, tra il campo e gli spalti del tempio del calcio, se n’è visto uno solo, e si chiamava Mancio da Jesi, come il condottiero di una giovane armata calcistica partita un po’ alla bell’e meglio e tornata invece da conquistador.
Ecco. Domenica “We are the champions” aveva quel senso lì. Ricordare che alla fine i conti si fanno sempre in campo. In ogni campo, mica solo quelli d’erba. E in ogni campo i leoni possono scoprirsi all’improvviso gattini. E the cat non sempre is on the table, my friend. Il gatto a volte si ritrova senza volerlo nel sacco. Anzi, magari in the sac, come maccheronicamente (ma simpaticamente) avrebbe detto un altro nostro indimenticato cittì. Ad maiora.
STEFANO PACIFICI

13 Luglio 2021 ( modificato il 17 Settembre 2021 | 18:52 )
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Il giornale
Più letto del mondo