Da Abbottabad a Idlib quel franchising dell’orrore
E’ la Rambo filosofia. All’s well that ends well. Tutto è bene quel che finisce bene. Qualcosa di enorme. L’iconografia dei kolossal statunitensi. Gendarmi del mondo. Loro il bene. E gli altri male. Da sconfiggere con l’esercito. Meglio se un po’ prima delle elezioni. Il capo dell’Isis Al Baghdadi è morto in un raid degli americani a Idlib in Siria. In apparenza la stessa scansione avvenuta per il massacratore precedente, Bin Laden, ispiratore dell’orrore delle Torri Gemelle. Regia curata dalla situation room. Con Barack Obama, un anno prima dalla sua rielezione. L’intervento della Navy Seals nel nascondiglio ad Abbottabad, alle porte di Islamabad, la capitale del Pakistan. Con il patibolo in diretta di Osama. Nel referto, morto per trauma balistico. I dettagli contano. Due trapassi, quella di Bin Laden e di Al Baghdadi, diverse nello svolgimento. Il primo è dipartito in una condizione quasi da pensionato. Il secondo era al fronte, in battaglia. Si è fatto esplodere. Osama, ricco, di buone entrature nella famiglia reale saudita, in relazione con i servizi americani, è stato usato, quando faceva comodo, negli anni Ottanta, per contrastare l’invasione sovietica in Afghanistan. La crisi nei rapporti cade negli anni Novanta, con l’entrata di Saddam Hussein in Kuwait. Al Baghdadi è altra clip. Carriera lacrime e sangue. In piena apologia dell’integralismo terrorista islamico. Fai da te. Fonda uno Stato che non c’è e si autoproclama Califfo.
Morto Al Baghdadi l’Isis non ci sarà più? Si diceva lo stesso dopo la fine di Bin Laden. E’ una conclusione semplicistica. Utile ai vincitori ai quali serve vendicare, urgentemente, gravi torti subiti. L’Isis è un franchising dell’orrore. C’è una affiliazione fideistica individuale in nome della causa religiosa. Alcuni arrivano con la barchetta a Lampedusa. Il proselitismo è simile alla camorra e alla mafia. A seguire c’è l’apparente sconfitta, dopo la morte dei capi, e l’interminabile capacità di riprodursi senza che si arrivi mai alla fine per sempre.
MAURIZIO GUANDALINI
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