Il deserto di fuoco e i giri di valzer
Alla fine, qualcuno a Langley s’è ricordato d’avere il numero in rubrica e l’ha dato a Trump, che ha chiamato il vecchio agente Cia, golpista scacciato da Gheddafi, riciclato come salvatore della patria. Al generale Haftar, ribattezzato feldmaresciallo come Rommel, benché della volpe del deserto abbia poco, ottenuto il via libera dalla Casa Bianca per “mettere in sicurezza” Tripoli dai terroristi, pareva fatta. Ma Tripoli non è il Fezzan, conquistato in un lampo, Al Sarraj non molla e non lo mollano l’Onu e l’Italia, più a chiacchiere che a fatti. Il capo del governo di coalizione è solo, resiste per esistere grazie agli aiuti turchi e qatarioti e alle truppe islamiche che hanno fermato, per ora, l’Esercito nazionale libico del rivale. Invece il feldmaresciallo ha dalla sua tutti, o quasi. L’Egitto di Al Sisi, Emirati Arabi e Sauditi, russi e francesi che gli hanno aperto le porte al sud e puntano a fare affari col futuro padrone della Libia. Proprio quei francesi che ne sgominarono l’armata in Ciad, suscitando l’ira di Gheddafi e costringendolo a mettersi sotto la protezione Usa e a libro paga della Cia.
Non se ne fa cruccio, Haftar. Sa che sul campo le alleanze sono un giro di valzer. Le sue milizie non valgono l’Afrikakorps di Rommel ma lo stallo nella battaglia per Tripoli è utile a rinegoziare da un punto di forza gli accordi di Gadames. L’Italia, come al solito, nicchia. Riarma le motovedette regalate a Sarraj per fermare gli scafisti, chiede una soluzione politica. Ma se vorrà che sulle italiche sponde non si riversino torme di diseredati, dovrà salire anch’essa sullo strapuntino dei corteggiatori del feldmaresciallo.
MAURIZIO ZUCCARI
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