Se anche Versace se ne va in America
Un altro pezzo di Made in Italy se ne va. Rispondere alla domanda sul perché Versace se lo sono preso gli americani equivale a rispondere al ciucco quesito sul perché Macron può sforare il deficit e noi no. Al primo va facile dire “è la globalizzazione bellezza”. Al secondo question time diciamo che noi abbiamo un debito incontrollato e i francesi no. Entrambi sono prova di debolezza del marchio patriottico. E stupisce che qualcuno se ne stupisca.
Per la moda siamo conosciuti nel mondo. Quel denaro che entra ed esce dalle maison genera lavoro e nuove professioni. Blog e influencer. I mestieri più belli. Vestiti regalati e soldi per segnalarli su Instagram. Cosa ha a che fare questo con la tradizione, l’artigianalità e il valore degli abiti è da scoprire.
Sono vissuto tra fili, forbici, macchine da cucire e stoffe. Mia madre faceva la sarta e ha sempre rifiutato quello di “stilista”. Svilito da quando l’avvento dell’industrializzazione della moda è rimasta vittima di doping per urgenze di bilancio. Al di fuori del cuore del tifoso italico per l’abito fatto in casa. Nessun dolore, quindi.
La perdita del marchio Versace, prima di Gucci e Valentino, sono l’addio a qualcosa che non sentiamo più nostro da tempo. Anche se ci fa piacere vedere il nome per le vie di Dubai o di New York. Stupisce, questo sì, che non vi sia un grande imprenditore, o un gruppo di industriali, con capacità e mezzi per trattenere i marchi del lusso a casa nostra. La Francia l’ha fatto. Andando incontro al proverbiale sciovinismo d’oltralpe. Come nel cibo. Altro terreno di sfida con i cugini rossoblù.
Per non farci sfilare la ciccia e i brand dovremmo impegnarci a togliere i fronzoli. Modi e mode. Lo suggerisco a Carlin Petrini che al Salone del Gusto 2018 di Torino ha detto «Il giorno in cui il cibo avrà la stessa attenzione della moda avremo risolto un problema di dignità e valorialità». Non cadiamo nel virus sfascia famiglie della spettacolarizzazione. Dove ognuno fa da sè.
MAURIZIO GUANDALINI
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