La Grande Guerra
8:30 am, 9 Ottobre 15 calendario

Quando il Regio Esercito costruiva moschee in Italia

Di: Redazione Metronews
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MILANO Ci fu un tempo in cui le istituzioni militari italiane ospitavano lavoratori musulmani, costruivano per loro alloggi, moschee, mense, e garantivano loro cure e assicurazioni sanitarie oltre che un trattamento non solo buono ma “paterno, con il rispetto assoluto della loro religione e dei loro usi che con essa si collegano”. Quel tempo era la Grande Guerra. E quei lavoratori erano operai militarizzati provenienti dalla Libia, ovvero da Tripolitania e Cirenaica, divenute colonie italiane dopo l’aggressione militare del 1911-12. La vicenda è davvero «poco conosciuta, per lo più inedita e fa riflettere anche oggi, in un’epoca caratterizzata da difficoltà di integrazione, tanto più che il “paterno trattamento” era assicurato per regolamento a chiunque professasse una fede diversa dalla cattolica» dice Andrea Bianchi, ricercatore dell’Associazione Nazionale Alpini. Proprio Bianchi terrà, sabato 10 ottobre, nel milanese Palazzo Moriggia, sede del Museo del Risorgimento, un intervento sul tema “Gli operai militarizzati mussulmani” nell’ambito di una giornata di studi intitolata “Oltre la fede 1915-1918. L’aspetto multireligioso nell’Esercito Italiano” (dalle 9 alle 17, via Borgonuovo 23, ingresso libero). Ecco un modo interessante di commemorare la Grande Guerra nel centenario dell’entrata nel conflitto dell’Italia. Un’occasione, oltretutto, per investigare temi, nella stessa giornata, come “I valdesi in grigioverde” (il titolo dell’intervento del pastore valdese Giuseppe Platone) e “Gli ebrei in grigioverde” (intervento di Francesco Palazzo, del Dipartimento di Studi storici dell’Università degli Studi di Milano).
Andrea Bianchi racconta: «Truppe indigene inquadrate nel Regio Esercito e inviate al fronte italiano non ce ne sono state, ma dal luglio 1917 furono inviati in Italia ben 21 scaglioni libici di operai militarizzati, per un totale di 5 mila uomini». L’ispettorato Scaglioni Libici aveva sede a Milano e gestiva l’afflusso. Bianchi esibisce un Bollettino del Comitato Centrale di Mobilitazione Industriale in cui è riportato esattamente il quadro riassuntivo della manodopera libica impiegata in Italia: in tutto, tra 1917 e 1918, 5.480 persone. Dove furono impiegate? Un po’ in tutta italia, in fabbriche e acciaierie, ma soprattutto nel triangolo industriale: a Milano (o meglio a Sesto San Giovanni, presso Breda e Pirelli), a Genova (all’Ansaldo di Sampierdarena), a Torino e in Piemonte (Bagnasco, Linate al Sambro, al Lingotto torinese, alle Industrie Metallurgiche di G. Tedeschi & C.).
L’aspetto forse più interessante è che i libici, almeno negli stabilimenti più grandi e strutturati come quelli di Genova e Milano, due “piazze” che da sole raccoglievano quasi duemila lavoratori militarizzati, ricevevano un trattamento particolare: venivano alloggiati in complessi appositamente preparati (vedi la piantina di quello genovese di Sampierdarena), erano sottoposti a pratiche sanitarie come le vaccinazioni antitifiche e antivaiolose, ricevevano un salario di 3,50 lire per otto ore lavorative al giorno (contro le 9 degli italiani) ed erano assicurati contro gli infortuni. Non erano, forse, “volontari”, «ma nemmeno trasferiti in Italia come schiavi», dice Bianchi. Che aggiunge particolari: «Venivano vestiti dell’uniforme e divisi in gruppi da 100 uomini con a capo un graduato italiano e un capogruppo indigeno e ad ogni scaglione fu aggregato un Imam». Si provvide al loro cibo, come «gli ovini da macellarsi secondo i riti della loro religione». Oltre agli alloggi furono edificate anche le moschee (più che altro, probabilmente, locali adibiti al culto, ma nulla è rimasto). «Inoltre fu assicurato loro il tè, bevanda a loro gradita, e il tabacco “Samsun” del tipo usato in colonia». «Poco a poco», continua Bianchi, «gli operai libici furono abituati alla vita urbana e poterono uscire dai loro quartieri. Non si segnalarono attriti con la popolazione residente. Anzi, alla fine della guerra si divisero tra chi tornò in Libia e chi rimase in Italia». Infine, un’altra curiosità”: «Gli operai del 1° Scaglione, a Sampierdarena, riuscirono pure a offrire lire 1.700 pro mutilati. Italiani».
SERGIO RIZZA
Twitter: @sergiorizza

9 Ottobre 2015
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