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5:00 am, 18 Luglio 24 calendario

«Naked tourism, cineturismo e dark tourism: tutti in fuga per sentirci unici»

Di: Patrizia Pertuso
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In principio, fu il mare. Poi, arrivò la montagna. A seguire le città d’arte. Le mete preferite degli italiani per trascorrere qualche giorno di vacanza non si esauriscono in queste possibilità. Perché, oltre a tutto ciò che un’agenzia di viaggi o il sempre più usato “fai-da-te” può offrire, si è sviluppato negli ultimi anni un nuovo filone che va dal turismo degli eventi a quello gastronomico e/o enogastronomico, dal naked tourism al cineturismo passando per il dark tourism. A spiegare da cosa nascono queste scelte, Duccio Canestrini, antropologo.

Prima di tutto: lei si definisce un antropop. Ci spiega?

«Sono un antropologo da sempre molto attento alla comunicazione: ho sempre parlato e scritto per farmi capire non tanto dai colleghi ma dalla gente. I miei riferimenti quindi sono pop, appartengono alla cultura popolare: seguendo un metodo multimediale tocco il cinema, la natura, la musica, le cose che hanno a che fare spesso con l’attualità, con la contemporaneità. È un’antropologia la mia che serve a interpretare la vita di tutti i giorni, i fenomeni popolari».

Chiarito questo, si ha un bel da fare sulle definizioni di “turista” e “viaggiatore”. In questa querelle lei ha inserito una terza categoria, quella dell’homo turisticus. Chi è costui?

«Con questa definizione ho proposto di superare la vecchia e inutile distinzione tra i viaggiatori eroici e i turisti intesi come banalizzatori del mondo. Homo turisticus siamo tutti noi che partiamo con delle motivazioni e aspettative per compiere il dovere di vacanza. ».

Il dovere di vacanza?

«Non so se si può parlare di diritto di vacanza visto che è diventato quasi un dovere. Staccare dal lavoro è un atto pubblico non solo privato. La domanda che inevitabilmente fiocca “dove vai in vacanza” o, in settembre, “dove sei stato in vacanza” evidenzia una dimensione sociale. Così come condividiamo gli stereotipi esotisti veicolati dalla promozione turistica. E comunque bisognerebbe parlare di turismi, al plurale».

Per esempio?

«Il turismo degli eventi, quello legato alle mostre d’arte o ai concerti. Conosciamo questi eventi attraverso una comunicazione spesso martellante che ci induce a partire. Esattamente come quando uno va al supermercato o accende la tv e sente la pubblicità di un’azienda che produce patate. La stessa cosa vale per certi prodotti turistici per i quali funziona il passaparola. Il turismo però non è solo un comparto economico: è lo specchio della nostra società, nel bene e nel male, che al di là dell’evoluzione dei mezzi di trasporto presenta delle costanti».

Quali sono le costanti comuni nei diversi turismi?

«La principale è il desiderio di fuga da una quotidianità usurante: i “mali” da cui si vogliono prendere le distanze – a tempo determinato – sono quelli legati a impieghi lavorativi brutti, relazioni affettive complicate, mancanza di denaro, parenti anziani che invecchiano senza adeguato sostegno sociale, giovani violenti, neolaureati senza speranze, guerre alle porte, cattive notizie ovunque ci si giri, digitalizzazione spiazzante, e via dicendo. La “vacanza” così diventa sacrosanta, una terapia contro il disagio, e la settimana prima di partire incrociamo le dita che non accada qualcosa per cui – Dio non voglia – dobbiamo rinunciare. È una evasione che spesso è così compulsiva da diventare escapismo. Per questo è interessante parlare di turismo: porta a ragionare sulla qualità della vita che conduciamo, su questa necessità di compensazione tant’è che non vediamo l’ora di andarci a sdraiare su un lettino sotto un ombrellone per andare in “recupero”, per rigenerarci. A me ha sempre interessato l’aspetto in ombra non dell’ombrellone ma quello dello studio di quei fattori che scatenano il nostro il bisogno di rigenerarci, capire perché siamo così stressati, perché abbiamo questo desiderio di partire per esporci a esperienze insolite. Questo è però anche l’aspetto positivo del viaggio: la rottura della quotidianità che avviene attraverso un comportamento di diserzione da una leva produttivista, efficientista, lavorista. Esporsi all’insolito è uscire dalla comfort zone e provare esperienze nuove, parlare con persone con cui non si è mai parlato, osservare ambienti diversi, sono tutti stimoli importanti che servono a relazionarsi in maniera spiazzante e differente. Tendiamo a essere animali abitudinari: gli stimoli nuovi ci fanno bene. La ricchezza del viaggio, secondo me, è l’effetto smottamento interiore, sentire che qualcosa cambia dentro, vedere come si è e come si reagisce di fronte a situazioni inedite. Per me questo è il bottino da portarsi a casa. Basta avere occhi, sensibilità, pazienza, capacità di dialogo, introspezione, apertura mentale. Questo è il meglio che ci può dare anche oggi il turismo.

Torniamo ai nuovi turismi.

«Il turismo gastronomico, per esempio, che sta andando per la maggiore. Speravo che questa gastromania scemasse perché è imbarazzante fare centinaia di chilometri per riempirsi la pancia, per poi annoiare gli amici con l’impiattamento dei risotti, Il cibo è diventato un bene rifugio. Una volta si mangiava punto e basta, non si cantavano lodi ai ristoranti, i cuochi non erano star e non facevano gli opinionisti. Confido in un rinsavimento generale e che si ridimensionino le esperienze del palato. Per quanto riguarda l’enoturismo, ho visto momitive di americani che appena usciti dall’aeroporto cominciano a sbronzarsi. Poi fanno in ogni cantina che incontrano dove li aspettano tavolate e libagioni luculliane. Chiamiamolo con il suo vero nome: questo è il turismo dello sballo così come gli hippies negli anni 50 andavano in Messico per farsi i funghetti allucinogeni, non vedo tutta questa grande differenza. Certo oggi c’è la retorica del bere poco ma bene, sappiamo che più i turisti consumano più i gestori delle strutture ricettive sono contenti».

Turismi gastronomico e enogastronomico li abbiamo “sistemati”. Altri?

«Il boom del turismo a piedi, del mettersi in cammino. Un filone di grande successo anche editoriale. Siamo fatti per osservare e capire camminando, auspicabilmente senza lasciare troppe tracce del nostro passaggio. Al contrario dei copertoni delle mountain bike che invece sono sempre più impattanti. Per i biker si costruiscono tranquillamente ciclovie che una volta sarebbero state bollate come scempi ambientali. Il turismo, anche gracie ai social network, è sempre più prestazione più performance. Mare o montagnanon importa. Quello che conta è la rappresentazione del proprio girovagare, i post su Instagram dicono “guarda dove sono andato là!”».

Però questo aspetto rappresentativo c’è sempre stato con le foto, il rito delle diapositive al ritorno dal viaggio, da mostrare accuratamente per ore e ore alla pletora di amici perché si potesse “dimostrare” dove si era stati.

«Certo, le interminabili serate con la palpebra che si abbassava. Però adesso è in era digitale il fenomeno moltiplicato per mille».

Una sorta di percorso evolutivo, dalle cartoline alle diapositive fino ai social?

«Esattamente. Ora è più immediato ed è spalmato su diversi social. Il messaggio whatsapp con le immagini dal mare ha ormai di fatto sostituito la cartolina che nelle cassette delle lettere non si vede più. Al loro posto, solo bollette. Peccato. Però è così, tutto evolve. O involve, dipende.

Altre controindicazioni del performance tourism?

«Come in ogni forma di turismo ci sono gli eccessi, il naked tourism, il turismo “spogliati e fuggi”. Su Facebook ci sono immagini di persone che si sbracano nei posti più famosi, fanno uno strip sul Machu Picchu, sui fiordi norvegesi e sui vulcani indonesiani. Questo protagonismo, anzi questo esibizionismo, nasce perché la nostra società premia l’individualismo: ci dobbiamo distinguere per le gesta che compiamo e che rappresentiamo anche se poi, paradossalmente, nella nostra smania di distinguerci va a finire che ci omologhiamo».

Non lo trovo un paradosso perché la smania di distinguerci ormai ci accomuna. È un po come le partenze intelligenti: pensare che partire, per esempio, all’ora di pranzo sia meglio perché si trova meno traffico fa sì che si resti imbottigliati all’ora di pranzo, sotto il sole cocente, in una fila di macchine guidate da persone che hanno pensato tutte la stessa identica cosa.

«È esattamente così e questo pone degli interrogativi sulla formula del turismo sostenibile nato trent’anni fa. Purtroppo di questo aggettivo “sostenibile” si sono impadroniti la politica e il lessico istituzionale. Il problema è che qualsiasi turismo quando diventa di massa smette di essere sostenibile. È una questione di numeri, di capacità di carico».

Che ne pensa del cineturismo e del dark tourism, il turismo nei luoghi dove sono avvenuti fatti di cronaca “truculenti”?

«Il cineturismo ha avuto uno sviluppo grandissimo non soltanto In Italia, ma in tutti i luoghi dove sono stati girati film e serie tv di successo. Per esempio, dove hanno girato “Il trono di spade”, a Dubrovnik, sono arrivati milioni di persone. Dubrovnik si è messa in scena: si è costruita un’identità farlocca proprio per rispondere a questa ondata. In Toscana, la Val d’Orcia, è diventata come un set cinematografico, dopo il film “Il gladiatore”: ci sono persone che fanno la fila per camminare sfiorando con il palmo delle mani le spighe di grano come faceva Massimo Decimo Meridio, il gladiatore di Mel Gibson».

C’è una ricerca dell’antropologa Silvia Barberani che analizza come è cambiata Kastellorizo, l’isola greca dove è stato girato, molti anni fa, “Mediterraneo” il film di Gabriele Salvatores. Quello che si evidenzia sono proprio gli aspetti particolari per i locali, anche lì stravolti dall’ondata di turismo e “costretti” ad adeguarsi…

«Certamente, è un fenomeno che è cresciuto negli anni. Così come la gentrificazione».

Cosa intende per gentrificazione? Rivolgo la domanda all’antropop…

«La gentrificazione si verifica quando il turismo colonizza gli spazi abitati dai residenti. Nasce come fenomeno urbano, nelle città d’arte, espellendo la popolazione locale, richiedendo servizi dedicati che vanno a sostituire quelli tradizionali delle società autoctone. Proprio in questi giorni a Malaga stanno facendo cortei di protesta contro la gentrificazione per ribadire che la loro città non è un parco giochi, che i loro quartieri non sono alberghi diffusi».

E riguardo il dark tourism?

«Ci sono stati dei casi particolari, Cogne per esempio. Poi Avetrana. Si innescano curiosità morbose. Ognuno ha – o crede di avere – le proprie motivazioni per muoversi, e ne trae soddisfazione. Ci sono anche quelli che si fanno i selfie sorridenti ad Auschwitz…».

PATRIZIA PERTUSO

 

 

 

 

18 Luglio 2024 ( modificato il 17 Luglio 2024 | 21:30 )
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