Milano
4:05 pm, 3 Marzo 22 calendario

Strage di via Palestro, indagata la “biondina” che portò l’autobomba

Di: Redazione Metronews
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Dopo quasi 30 anni potrebbe avere un volto e un nome la misteriosa “biondina” delle stragi mafiose. La Procura di Firenze, nell’ambito delle nuove indagini sugli attentati terroristico-eversivi del 1992-93, ha indagato una donna sospettata di essere coinvolta, in particolare, nella strage del 27 luglio 1993 in via Palestro a Milano: un’autobomba danneggiò il Padiglione di Arte Contemporanea e provocò cinque morti.

Avrebbe portato l’auto in via Palestro

I militari della sezione Anticrimine dei Carabinieri del Ros di Firenze, su delega dei due procuratori aggiunti Luca Tescaroli e Luca Turco, sotto il coordinamento del procuratore capo Giuseppe Creazzo, mercoledì hanno eseguito un decreto di perquisizione, ispezione e sequestro in un’abitazione in provincia di Bergamo: l’indagata è Rosa Belotti, 58 anni, residente ad Albano Sant’Alessandro. La donna è accusata di essere “coinvolta nell’esecuzione materiale, con funzioni di autista” della Fiat Uno, imbottita di esplosivo, utilizzata per colpire il Padiglione di Arte Contemporanea “quale alto e irripetibile simbolo del patrimonio nazionale», come si legge negli atti della perquisizione. I magistrati della Direzione distrettuale antimafia ipotizzano che Belotti avrebbe agito «in concorso con appartenenti a Cosa Nostra già condannati con sentenza passata in giudicato».

 Secondo la Procura fiorentina, Belotti potrebbe aver partecipato anche all’attentato di via dei Georgofili a Firenze notte fra il 26 e il 27 maggio 1993. Potrebbe aver fatto da “autista” per conto dei mafiosi, alcuni dei quali già condannati con sentenze definitive, del furgone Fiat Fiorino imbottito con circa 277 chilogrammi di tritolo che provocò l’uccisione di cinque persone: i coniugi Fabrizio Nencioni e Angela Fiume con le loro figlie Nadia Nencioni (9 anni), Caterina Nencioni (50 giorni di vita) e lo studente Dario Capolicchio (22 anni), nonché il ferimento di una quarantina di persone e ingenti danni alla Galleria degli Uffizi.

L’indagata risiede nella Bergamasca

Rosa Belotti è la moglie di Rocco Di Lorenzo, 65 anni, condannato dalla Corte d’Appello di Bergamo a 11 anni di reclusione perchè considerato capo di una banda delle estorsioni, ora è in carcere per scontare una vecchia condanna. Le cronache bergamasche raccontano che la donna è sempre stata al fianco del marito, come sempre dal 1992 quando furono arrestati con altre 8 persone per un traffico di cocaina tra Bergamo e Mondragone, e nei primi mesi del 1993 tornò libera. Belotti in seguito avrebbe lavorato tra un negozio di frutta e verdura e uno di abbigliamento.  Secondo l’accusa, a Milano Belotti avrebbe condotto e parcheggiato la Fiat Uno imbottita di tritolo davanti al Pac nella sera del 27 luglio 1993, dove intorno alle 23.14 esplose, provocando l’uccisione di cinque persone: i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. L’attentato è inquadrato nelle indagini sugli altri attentati del 1992-’93 che provocarono la morte di 21 persone (tra cui i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino) e gravi danni al patrimonio artistico a Roma e Firenze.

In via Palestro due testimoni oculari

Secondo quanto emerse a suo tempo dalle indagini milanesi, due testimoni oculari dell’attentato di via Palestro, poco prima dell’esplosione della Fiat Uno imbottita di T4, pentrite e nitroglicerina, riferirono di aver notato una donna di circa trent’anni guidare l’auto, poi risultata rubata, fino a via Palestro. All’epoca si parlò di una misteriosa “biondina”, che sarebbe usciva dalla vettura dopo aver armeggiato nell’abitacolo; in auto c’era anche un uomo, però i due testimoni non videro bene. La giovane fu notata perchè, raccontarono i testimoni, era slanciata e bella, vestita in modo appariscente con tacchi alti e cintura vistosa.

L’identikit elaborato dagli investigatori milanesi sulla base dei racconti degli avvistamenti da parte dei testimoni di via Palestro trovò conferma in una fotografia molto simile trovata all’interno di un libro nel settembre del 1993 durante una perquisizione effettuata in un villino nel comune di Alcamo (Trapani) nell’ambito delle indagini sulle stragi mafiose che portò al sequestro di numerose armi. A distanza di 29 anni le nuove tecnologie per la comparazione dei volti a disposizione degli investigatori del Ros avrebbero permesso di identificare la foto ritrovata ad Alcamo con una foto segnaletica della donna ora perquisita risalente al 1992.

La dinamica dell’attentato

La sera del 27 luglio 1993 luglio l’agente di polizia locale Alessandro Ferrari notò la presenza di una Fiat Uno  parcheggiata in via Palestro, di fronte al Padiglione di Arte Contemporanea, da cui fuoriusciva un fumo biancastro e quindi richiese l’intervento dei vigili del fuoco, che accertarono la presenza di un ordigno all’interno dell’auto; tuttavia, qualche istante dopo, l’autobomba esplose e uccise l’agente Alessandro Ferrari e i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno ma anche l’immigrato marocchino Moussafir Driss, che venne raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina. L’onda d’urto dell’esplosione frantumò i vetri delle abitazioni circostanti e danneggiò anche alcuni ambienti della vicina Galleria d’arte moderna, provocando il crollo del muro esterno del Padiglione di Arte contemporanea. Durante la notte esplose una sacca di gas formatasi in seguito alla rottura di una tubatura causata dalla deflagrazione, che procurò ingenti danni al padiglione, ai dipinti che ospitava e alla circostante Villa Reale.

I collaboratori di giustizia

Le indagini ricostruirono l’esecuzione della strage di via Palestro in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Pietro Carra, Antonio Scarano, Emanuele Di Natale e Umberto Maniscalco: nel 1998 Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali della strage di via Palestro nella sentenza per le stragi del 1993. Tuttavia, nella stessa sentenza, si leggeva: «Purtroppo, la mancata individuazione della base delle operazioni a Milano e dei soggetti che in questa città ebbero, sicuramente, a dare sostegno logistico e contributo manuale alla strage non ha consentito di penetrare in quelle realtà che, come dimostrato dall’investigazione condotta nelle altre vicende all’esame di questa Corte, si sono rivelate più promettenti sotto il profilo della verifica esterna».
Nel 2002, sempre in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso (“uomini d’onore” di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell’esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage di via Palestro. Nel 2003 la Corte d’assise di Milano condannò i fratelli Formoso all’ergastolo.  Nel 2008 Gaspare Spatuzza iniziò a collaborare con la giustizia e fornì nuove dichiarazioni sugli esecutori materiali della strage di via Palestro: in particolare, Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (mafiosi di Brancaccio) parteciparono a una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati. Secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell’esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell’attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese.

In seguito Spatuzza scagionò anche Tommaso Formoso, dichiarando che all’attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l’esplosivo. Tuttavia nell’aprile 2012 la Corte d’assise di Brescia rigettò la richiesta di revisione del processo a Tommaso Formoso, adducendo che le sole dichiarazioni di Spatuzza non bastavano. Sempre sulla base delle dichiarazioni di Spatuzza, nel 2012 la Procura di Firenze dispose l’arresto del pescatore Cosimo D’Amato, cugino di Cosimo Lo Nigro, il quale era accusato di aver fornito l’esplosivo, estratto da residuati bellici recuperati in mare, che venne utilizzato in tutti gli attentati del 1992-1993, compresa la strage di via Palestro. Nel 2013 D’Amato venne condannato all’ergastolo con il rito abbreviato dal giudice dell’udienza preliminare di Firenze.

3 Marzo 2022
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