Musica
5:00 am, 12 Luglio 24 calendario

«La musica insegna ad ascoltare gli altri, insieme siamo un grande coro»

Di: Patrizia Pertuso
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Biondissima (naturale), con i capelli raccolti in una lunga treccia, occhi verdi e un entusiasmo che sembra quello di una bambina che si affaccia al mondo per la prima volta. I suoi piccoli studenti delle scuole elementari la paragonano a Elsa di “Frozen”. Lei è Valentina Volpe Andreazza, 37 anni, cantante e performer: si è esibita al Parlamento Europeo, al G7 e in molte altre parti del mondo con il suo progetto “Music4Diplomacy”.

Di che si tratta?

«Nasce mentre frequentavo la facoltà di Scienze politiche e relazioni internazionali all’Università di Padova e studiavo contemporaneamente al Conservatorio. Mi sono accorta che stavo studiando la storia delle relazioni internazionali e la storia della musica e ho capito quanto fossero connesse tra loro. La musica ha sempre avuto un ruolo all’interno dei fatti politici ed economici e l’artista, che è libero di dire la sua, può raccontare quello che sta succedendo facendo riflettere le persone. L’artista ha un ruolo sociale. Così ho deciso di mettere la musica al servizio del dialogo interculturale e della pace, come strumento per le relazioni internazionali. Ho sempre sognato di fare la diplomatica musicale, l’ambasciatrice della musica che parla al cuore delle persone portandole alla conoscenza dell’altro».

Lei afferma spesso: «La musica connette le persone attraverso un linguaggio diverso, non verbale, quello delle emozioni”. È un linguaggio cross culturale?

«Secondo me sì ed è per questo che ho fondato Music4Diplomacy. L’obiettivo è proporre la musica non come intrattenimento all’interno di conferenze diplomatiche, ma come momento di riflessione inserita in un panel di lavoro. Ho avuto la fortuna di trovare committenti che comprendevano il mio spirito e ho iniziato a inserire vari repertori nel corso delle conferenze diplomatiche. Propongo questo format non alla fine, ma all’interno di un panel di discussione proponendomi come attore sociale che dice la sua. L’artista in questo modo non viene considerato come un semplice intrattenitore e ciò che dice ha un valore maggiore».

A proposito di collaborazione con le istituzioni lei ha cantato ultimamente al Parlamento Europeo e al G7 istruzione. Che esperienze sono state?

«Ovviamente è stato un onore portare in concerto “Sulle tracce di Europa” al Parlamentarium, a Bruxelles, con il trio formato da Ashti Abdo al sax, voce e percussioni, Manuel Buda alla chitarra classica e Fabio Marconi alla chitarra a sette corde. Lo abbiamo portato in scena il 7 giugno scorso, giorno in cui a Bruxelles si votava. Il concerto racconta la storia della principessa Europa e nasce dalla domanda sul perché ci chiamiamo europei e perché viviamo in un continente che si chiama Europa. Alla ricerca di quel nome ho riscoperto che Europa era una principessa fenicia, zona che corrisponde all’attuale Libano. Tutta l’Europa è debitrice nei confronti di questo mito greco che ci ricorda le nostre radici mediterranee e rappresenta un incontro di culture che noi riproponiamo cantando in arabo, in ebraico, in curdo siriano, in macedone. Usiamo tutte le lingue del Mediterraneo fino ad arrivare al cuore dell’Europa con un pezzo di Chopin in polacco per dimostrare che la musica ci insegna che siamo tutti interconnessi come le radici degli alberi: noi vediamo le fronde che sono i vari popoli, ma le nostre radici, andando indietro nel tempo attraverso la musica, appartengono a forme musicali che si sono incontrate con altri popoli. Da questo incontro abbiamo creato poi delle sonorità uniche. Questo concerto racconta proprio questo patrimonio culturale che ci sostiene e che non dobbiamo mai dimenticare».

Lei canta spesso anche in Cina.

«Poco prima di partecipare al G7 for Education sono stata a Shanghai per cantare in anteprima la canzone “Marco Polo, la via della seta” scritta da Francesco Morettini e Luca Angelosanti che tornerò a presentare ufficialmente a fine luglio a Pechino per l’inaugurazione di una mostra organizzata dal nostro Ministero per gli affari esteri e che poi girerà per tutto il mondo. Questa canzone sarà la colonna sonora della mostra».

So anche che c’è stato un incontro particolare durante un suo concerto a Pechino…

«L’anno scorso, la mia prima volta a Pechino, sono stata invitata da Federico Roberto Antonelli, direttore dell’Istituto italiano di cultura di Pechino per la stagione musicale. Sono stata la prima artista italiana a tornare in presenza dopo la pandemia e la mia sorpresa più grande è stata trovare tra il pubblico uno dei fondatori e attuale professore di Antropologia a Milano-Bicocca, Roberto Malighetti: è anche il mio professore perché mi sono iscritta al corso di laurea magistrale in Scienze antropologiche ed etnologiche. Avevo in valigia un suo libro, l’etnografia “Il quilombo di Frechal” perché stavo mi stavo preparando per sostenere il suo esame. Quando l’ho visto, sono andata in camerino, ho preso il libro e gli ho chiesto immediatamente un autografo. È stato emozionante trovare un pezzettino di Italia che mi sta formando lì, dall’altra parte del mondo».

Vi siete scambiati gli autografi?

«Forse sì, non ricordo. Quello che so è che io ho il suo».

Torniamo alla sua partecipazione al G7 istruzione. Come ci è arrivata?

«Appena tornata da Shanghai ho avuto un incarico dal Ministero dell’istruzione e del Merito per collaborare con il YounG7 for Education, che è stato il primo G7 dei ragazzi. Avevo il compito di portare avanti un laboratorio musicale con la direttrice del Coro delle voci bianche del Maggio Musicale Fiorentino, Sara Matteucci. Con lei abbiamo preparato dei brani tratti da “Il piccolo principe” di Antoine de Saint-Exupéry e musicati da Pierangelo Valtinoni, un’opera che ha debuttato alla Scala due anni fa. Abbiamo lavorato con i bambini e, in pochissimi giorni, abbiamo preparato il concerto che si è svolto all’Arena Alpe Adria di Lignano come evento di chiusura del G7 istruzione».

Lei, fra le mille cose che fa, lavora anche con i bambini nelle scuole, giusto?

«Sì, vado nelle scuole a raccontare l’opera lirica e come questa forma d’arte parli anche di fiabe che arrivano da altre culture in un incontro di storie e topos che sembra si rincorrano attraverso la musica».

Nasce da lì il laboratorio per il YounG7 for Education?

«Abbiamo sviluppato una parte dedicata alla “musica come strumento di pace e dialogo interculturale” per il YounG7. Frutto di questo laboratorio è stata una lettera che abbiamo scritto al Ministro Valditara, che ci auguriamo risponda, ribadendo l’importanza della musica nelle scuole: chiediamo che venga insegnata da musicisti come una vera e propria disciplina. Il nostro sogno è che ci sia un coro in ogni scuola di ordine e grado così com’è all’estero. La musica ci aiuta a sviluppare il pensiero critico, ci insegna ad ascoltare quando cantiamo insieme, a far sì che se io faccio bene una cosa, la faccio bene non solo per me, ma anche per chi mi sta a fianco: insieme concorriamo a un bene comune che è quello della bellezza. Un coro canta come se fosse un’unica voce».

Restiamo su quanto ha appena detto: la musica fa del bene a chi la riceve. So che lei ha lavorato in una RSA di Monza organizzando laboratori di musicoterapia. Com’è andata in quel contesto?

«Preferirei chiamarla operaterapia. In quel caso, abbiamo inventato un progetto pilota assieme alla psicoterapeuta Lisetta Sorrentino che si chiamava “Musica e ricordi (viaggio nel tempo)” per i pazienti Alzheimer, RSA, stati di semi coscienza e SLA, nella RSA San Pietro di Monza gestita dalla cooperativa sociale La Meridiana. Lei si occupava della parte terapeutica, io di quella musicale.  Attraverso i libretti delle opere ho cercato di arrivare a una memoria storica, a quel patrimonio sonoro e musicale che c’era nelle menti e nei ricordi dei pazienti. Abbiamo lavorato anche con persone in stato di semi incoscienza. Le opere, che una volta venivano ascoltate in maniera molto più diffusa rispetto ad oggi, sono state un aggancio per entrare nei loro ricordi sonori e iniziare una relazione».

Come avvenivano questi incontri?

«La base è stata proprio quella di non andare lì ad esibirsi, ma cantare insieme ai pazienti seduti in semicerchio. Abbiamo realizzato 5 incontri per ognuno dei tre reparti: in gennaio, il reparto RSA, in febbraio per il “Paese ritrovato”, il luogo che ospita i pazienti Alzheimer, e in marzo abbiamo incontrato quelli in stato di semi incoscienza e i malati di SLA. Gli incontri avvenivano sempre in un luogo comune all’interno di questa struttura e si svolgevano partendo da un brano iniziale che sceglievo accogliendo i desiderata dei pazienti e anche i consigli della psicoterapeuta. Poi, ci si cominciava a raccontare».

Racconti anche a noi.

«Cantavamo le canzoni che erano legate ad alcuni ricordi dei partecipanti al laboratorio e loro ci raccontavano le reminiscenze collegate ai brani che avevamo eseguito: la guerra, il ricordo di quando erano bambini, la prima volta al mare, il gioco. In quel caso, ero lo strumento musicale che suonava per far riemergere quelle memorie. A volte accadeva che qualcuno raccontasse cose che non aveva detto neanche agli operatori sanitari perché, sull’onda della musica, affioravano sia nuovi ricordi che dettagli di momenti già raccontati. Nel reparto RSA abbiamo deciso di far scrivere loro anche un diario. C’è stata una persona in particolare che ha iniziato a chiedere alla sorella di portargli delle foto di lui, da quando era piccolino a quando era diventato grande; ha dedicato una pagina a ogni ricordo. È stata una immensa gioia. Credo sia giusto andare negli ospedali non con una “toccata e fuga”, ma restando in questi posti per creare relazioni che non siano interrotte o strozzate dal tempo. “Tu sei vivo e esisti se io ti vedo”, questo mi ripete sempre Lisetta. Finché io non ti vedo e non capisco chi sei è come se tu fossi invisibile. In questo modo, molti pazienti hanno cominciato a conoscersi e a riconoscersi anche fra loro. E per me è stato un percorso di crescita immenso scoprire le fragilità umane che abitano dentro ognuno di noi accanto a qualche frattura che ha bisogno solo di essere curata non attraverso il pregiudizio ma con l’empatia».

Qual è la sua fragilità?

«Credo che ogni giorno prendiamo coscienza di quello che abbiamo dentro e abbiamo la possibilità, se ci ascoltiamo, di conoscere quali siano le nostre fragilità. Dobbiamo prendercene cura volendoci bene. In questo periodo della mia vita mi sto prendendo molto cura di me e mi sto volendo molto bene grazie alla musica che, oltre alla mia famiglia e alle persone che mi vogliono bene, è il mio balsamo del cuore».

Nella RSA diceva che aveva uno scambio verbale con le persone. Con i pazienti in stato di semi incoscienza, invece, come lavorava?

«È stato sbalorditivo l’incontro con loro: mi ritrovavo davanti questo pubblico nuovo per me che mi guardava. Ho cominciato ad andare vicino a ciascuno di loro e ho iniziato a vedere chi cantava con me. Partivo con un grande classico della musica italiana, “Volare”. Il leit motiv di ogni laboratorio era la frase: “Ma il mio mistero è chiuso in me”. Ognuno di noi ha un mistero chiuso in sé che è bello scoprire».

Che cosa ha scoperto?

«Ho scoperto, per esempio, che una persona – una signora con degli occhi azzurri meravigliosi, pieni di vita e di gioia, ma paralizzata in un corpo che non le rispondeva più – dopo che io avevo intonato la parola “Volare” ed ero rimasta in silenzio per darle tutto il tempo di cui aveva bisogno, con grande fatica. ha iniziato a muovere le labbra e ha sussurrato: “Oh oh”. Ho proseguito con un’altra parola, “Cantare”. E lei, sempre seguendo i suoi tempi, con uno sforzo ancora più grande di quello che aveva sostenuto prima, ha risposto: “Oh oh oh oh”. Intanto, aveva iniziato a sussurrare anche il paziente che era di fianco a lei: è stata una catena di potenza di vita che si è sviluppata tra tutti loro. Noi siamo rimasti sbalorditi, compreso il neurologo della struttura. Ecco, questo per me è l’unico modo per fa musica: insieme, non da soli».

PATRIZIA PERTUSO

 

 

 

 

 

 

 

12 Luglio 2024 ( modificato il 11 Luglio 2024 | 15:13 )
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