Viaggio della Memoria
6:43 pm, 12 Aprile 15 calendario

Viaggio della Memoria Il racconto di due liceali

Di: Redazione Metronews
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Quest’anno ricorreva il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz (27 gennaio 1945).  Nei giorni 29, 30 e 31 marzo si è svolto il “Viaggio della Memoria degli studenti della Regione Lazio”, promosso e organizzato dalla Regione Lazio, sui luoghi dell’Olocausto: Cracovia con il suo antico quartiere ebraico dalla storia plurisecolare, e con il ghetto creato dai nazisti nel 1941-43 per facilitare la totale eliminazione della locale e florida comunità ebraica; poi, a poche decine di chilometri da Cracovia, il sistema concentrazionario costituito dal campo di sterminio di Birkenau e dal campo di concentramento di Auschwitz, l’uno distante dall’altro appena tre chilometri. Hanno partecipato quasi centocinquanta docenti, in rappresentanza di altrettante scuole superiori ognuno dei quali accompagnava due alunni del proprio istituto; vi si aggiungevano i rappresentanti della Regione Lazio, docenti universitari, responsabili dell’istituendo Museo della Shoah a Roma. In totale, quasi cinquecento persone. 
A guidarli, in questo doloroso cammino di conoscenza, quattro sopravvissuti al campo di Birkenau: ora anziani più che ottantenni, ma allora, all’arrivo nel campo fra il maggio e il luglio 1944, solo ragazzi, se non bambini: Piero Terracina, internato a sedici anni; Samuel Modiano, internato a quattordici anni; le sorelle Tatiana (Liliana) e Andra (Alessandra) Bucci, deportate a sei e quattro anni. 
Ho partecipato al viaggio, come docente del Liceo classico “Socrate”, accompagnando due mie alunne (fra le più giovani del gruppo, in genere composto da studenti dell’ultimo triennio): avevo pensato di scriverne io stesso, ma poi ho ritenuto più giusto che fossero gli stessi studenti coinvolti a parlarne, perché è compito dei giovani, in primo luogo, farsi portatori del monito “Mai più!” Ecco la loro testimonianza.   
Prof. GIANFRANCO MOSCONI
 
Le voci dei sopravvissuti. Testo di Ilaria Vitalone
(Liceo classico Socrate, Roma, classe II B). 
All’esortazione del padre a mantenere una dignità nonostante le umiliazioni e le sofferenze della condizione di deportati, Piero oggi risponde così: «Ma dov’è la dignità quando hai fame, a 15 anni, non vuoi morire e impari come si muore!». Piero Terracina fu deportato all’età di 15 anni insieme alla sua famiglia. Denunciato come tutti da un suo stesso concittadino, fu, direi quasi paradossalmente, salvato da un deportato italiano, che, al momento dell’arrivo al campo, gli disse di dichiarare 18 anni. Quell’uomo, senza saperlo, gli salvò la vita. Ho visitato personalmente l’inferno da Piero descritto: ho visto il traghetto di Caronte e le macerie dell’edificio da cui lui vedeva uscire fumo, ogni giorno, ad ogni ora, incessantemente. «Mi rifiuto di descrivervi i particolari, perché molti di voi non mi crederebbero» Chi lo farebbe? Avere la forza di ripercorrere il cammino dalla rampa ai campi di lavoro e rivivere tutto: risentire le grida e l’acre odore della morte.
Lui, come un altro sopravvissuto, Samy (Samuel) Modiano, deportato all’età di 13 anni, hanno iniziato a testimoniare abbastanza tardi. Nelle sue parole ancora si avverte il dolore, la sofferenza fatica nel ricordare l’umiliazione e la consapevolezza di un “inferno” in cui sono stati gettati dall’oggi al domani, senza un apparente motivo. Così ricorda il viaggio nel battello su cui iniziò il lungo viaggio che conduceva lui e gli altri deportati dalla solare Rodi a Birkenau: «Cinque secchi d’acqua per dissetare 400 persone, tra cui bambini,infanti,donne e un bidone vuoto.. voi capite per cosa.I bambini piangevano. Come spieghi a un bambino che l’acqua non basta per tutti!Non posso dimenticare mio padre che quando gli porgevano la sua razione d’acqua diceva “No! Posso ancora sopportare la sete.Datela a questa vecchietta che sta morendo..bagnatele le labbra” Questi occhi… a 13 anni hanno dovuto sopportare morti buttati a mare. Il pudore!La vergogna!» Il Signor Samy parla molto spesso della sua famiglia, di sua sorella e di sue padre.
Non dimenticherò mai ciò che ci disse nel campo di Birkenau ,con la voce troncata dal pianto, per raccontare come tre SS strapparono crudelmente dalle braccia del padre l’adorata sorella Lucia; né dimenticherò le aprole con cui cui ci ha narrato l’ultimo incontro, a sera, in una baracca del campo di Birkenau, con suo padre: «Dopo avergli detto della morte di sua figlia si lasciò andare.Una notte mi disse di rimanere con lui. Non me lo aveva mai detto. Mi disse “Samy,io domani no sarò qui.Vado in ambulatorio.” Tutti sapevamo che uno dei modi per morire in anticipo era presentarsi in quel posto. Mi diede la sua benedizionee; le sue ultime parole furono “Và a riposare.Domani ti aspetta una giornata di lavoro” Il giorno dopo mio padre non c’era più».  Essere coscienti della morte del proprio padre e non poter fare nulla per cambiare la situazione. La solitudine e la certezza della morte: una logorante combinazione. E nonostante tutto trovare la forza per sopravvivere. Mi sono commossa. Ma sono rimasta scioccata quando abbiamo ascoltato, muti nell’orrore, la testimonianza delle sorelle Bucci, deportate a 4 e 6 anni: testimonianza resa dinanzi alle macerie di quella che, settant’anni fa, era stata loro stessa baracca : «Noi ci abituammo presto alla vita nel campo:la mattina giocavamo tra i cadaveri. Molto presto nostra madre non si fece più vedere. Per noi l’idea che fosse morta e fosse in qualche ammasso di quei cadaveri bianchissimi come cavalli era normale.Non piangemmo nemmeno». 
Nelle loro parole ho percepito un filo di lontananza: erano bambine come potevano capire cosa stava succedendo loro? Come spiegare l’orrore in cui – ed erano solo ragazzi o, come le sorelle Bucci, bambine di appena quattro e sei anni – erano stati gettati? E poi, abituarsi alla morte. Come ci si può abituare alla morte? Quando ho visitato il campo di Auschwitz, però, non ho pianto: l’interno del campo è stato trasformato in un ‘museo’, con vari padiglioni dedicati ognuno ad un tema. Quelle “reliquie” però, assumono, un altro significato se viste attraverso  occhi davanti cui la morte si è stagliata. Personalmente quel museo della morte non mi ha turbata tanto quanto le parole di chi è ancora vivo. Ognuno di loro ha ritrovò la forza di rialzarsi e riprendere a vivere: traendola dal conforto degli amici sopravvissuti, come Piero, nella famiglia ritrovata come le sorelle Bucci o nella propria comunità ebraica, come Samy. Mi ha  stupito la forza di queste persone, mi ha stupito ciò che ci ha detto Samy Modiano, nel momento più cupo della sua testimonianza: «Mi arrabbiai e bestemmiai. Io le vedevo queste cose e Dio? Lui non le vedeva?» Sopravvissuti che sono andati avanti, hanno rimparato a vivere e hanno vissuto. «Grazie a Dio ritrovai la fede, perché nel mondo non c’è solo il male». 
 
La visita a Birkenau.
Testo di Martina Mazza (Liceo classico Socrate. Roma; classe II B).
30/03/2015. Sveglia alle 6:00. Con gli occhi gonfi di sonno ci trasciniamo sul pullman, che in un’ora ci porta davanti all’entrata di Birkenau. I binari dei treni per le deportazioni passano sotto l’arcata del cancello e proseguono fin dentro il campo, al centro della strada principale, che percorriamo anche noi. A sinistra vedo le baracche di mattoni rossi, in parte ricostruite, che si ergono dietro la recinzione di filo spinato. A destra invece, ci sono le rovine delle baracche che sono state distrutte perché fatte di legno, delle quali rimangono le fondamenta e le canne fumarie. Dei due campi, Auschwitz e Birkenau, questo è quello che mi fa più impressione, sia perché è rimasto più o meno com’era alla fine della guerra, sia perché non se ne vede la fine: le rovine delle baracche si estendono per centinaia di metri in ogni direzione. Birkenau era un campo di sterminio: solo il venti percento di chi vi veniva deportato sopravviveva per lavorare, mentre gli altri erano mandati, subito dopo la selezione, nelle camere a gas, le cui rovine sono in fondo alla strada sulla quale ci troviamo. Seguendo i binari, arriviamo a un vagone, messo lì come “esempio” per i visitatori, presso il quale ci raduniamo tutti perché i testimoni possano raccontarci il loro arrivo alla Rampa della morte.
Parlano per prime le sorelle Tatiana (Liliana) e Andra (Alessandra) Bucci, qui deportate all’etrà di sei e quattro anni, assieme alla nonna e alla madre. Parla Andra: “Le porte si aprirono e scendemmo. Gli ordini venivano dati in una lingua sconosciuta. Ci divisero a destra e a sinistra; tutte le persone a sinistra andarono subito a morte. Noi eravamo a destra. La mamma ci teneva sempre vicine”.
Poi è il turno di Piero Terracina, che racconta il suo arrivo, le SS schierate fuori dagli sportelli del treno, con un bastone in mano e un cane al guinzaglio. Sceso dal treno, ritrova i fratelli e vede la madre e la sorella che si mettono nella fila delle donne. “Ricordo che mamma aveva capito tutto; appena ci vide ci abbraccio’ tutti; piangeva. Ricordo ancora il mio viso che si bagna delle sue lacrime. Vedendo le SS che si avvicinavano, disse: ‘Andate, andate via. Non vi vedrò più’”.
L’ultimo a parlare è Samule Modiano, che giunse a Birkenau a sedici anni, deportato dalla lontana Rodi (allora possesso italiano) “Io ero con mia sorella Lucia, una bellissima ragazza, e mio padre Giacobbe, una persona adorabile. Quello che mi procura dolore e’ pensare a quando hanno diviso le donne e gli uomini. Non mi posso dimenticare quando sono venuti a togliere dalle mani di mio papa’ mia sorella Lucia, la mia carissima sorella Lucia. Lui ha cercato di non mollarla. Sono venuti in tre, l’hanno gonfiato di botte, io ero là. Ma cosa poteva di fronte alla forza di tre assassini?”. Alla fine mi commuovo e ascolto con le lacrime agli occhi Sami, che, con la voce rotta dal pianto, insiste sull’importanza del nostro impegno: fare in modo che tutto ciò non si ripeta mai più. E accenna anche alle persone nei convogli che sono arrivati dopo di lui, internato già da qualche tempo nel campo, che non sanno cosa significa destra o sinistra; vedendoli, Sami ricorda di aver bestemmiato: “Io le vedo queste cose, e so. Ma Lui queste cose non le vede?”.
Proseguiamo la nostra visita, e giungiamo davanti alle rovine delle camere a gas e dei forni crematori, dove siamo di nuovo raccolti. Qui proseguiva, ancora per poco, la storia delle persone che non erano ritenute adatte al lavoro. Venivano portate dentro degli spogliatoi sotterranei (infatti a Birkenau le camere a gas non erano al livello del suolo), per far credere a tutti di star facendo una semplice doccia. La finzione veniva mantenuta finche’ non erano tutti chiusi dentro la camera: le SS si raccomandavano di legare insieme le scarpe per non perderle, di ricordarsi il numero dell’appendiabiti…Dopo aver stipato tutti in questi stanzoni, i sassolini azzurri di Zyklon B venivano versati da fuori dentro delle colonne all’interno delle stanze e, in tempi più o meno brevi (come ci spiegano poi ad Auschwitz, la morte per soffocamento poteva avvenire in 3 come in 30 minuti), tutti morivano.
A questo punto interviene la moglie di Shlomo Venezia, un altro ‘testimone’ morto pochi anni fa, che era stato destinato a lavorare nel Sonderkommando: i prigionieri di questo dipartimento si occupavano dei cadaveri; era loro compito districarli uno dall’altro, tagliare i capelli (che venivano usati per fabbricare dei tappeti, o le suole delle pantofole) e aprire le bocche per tirare via i denti d’oro. Poi i corpi venivano portati via, per essere bruciati. Sono scioccata, e cerco di immaginare tutte le persone che scendevano quelle scale, di concentrarmi su ognuna di loro per capire che cosa dovevano provare. Alla fine, ancora scossa, cerco di ritrovare la guida, che si è già avviata in direzione della terza tappa della giornata.
Sempre a piedi raggiungiamo la Sauna, ovvero una costruzione composta da varie stanze, in cui ci sistemiamo per proseguire il racconto dei testimoni. Prima le Bucci, poi Piero Terracina, poi Sami, raccontano storie più o meno simili. In quelle stanze, insieme a quelli dei loro parenti che hanno superato la selezione, vengono registrati: dopo aver fatto la doccia ed essere stati disinfettati, gli vengono dati dei vestiti, gli vengono rasati peli e capelli, e infine si mettono in fila per farsi tatuare il numero sull’avambraccio sinistro. Dopo un rapido giro per quelle stanze grigie e vuote, facciamo la strada all’indietro fino alle baracche di mattoni che si vedevano dalla strada. 
Vediamo una baracca lunga, con una fila di comignoli, in cui c’erano le cucine, passiamo accanto alle baracche del lager femminile, e infine arriviamo alle baracche dei bambini. Entriamo in una di queste, nei cui letti, uno sopra l’altro, dormivano anche dodici bambini.
Quando usciamo ci ritroviamo con tutti gli altri davanti alle rovine di una baracca come quella che abbiamo appena visitato, dove Sami e le sorelle Bucci proseguono la loro storia.
Sami racconta della sveglia alle 4:00 del mattino e del rientro alle 6:00 di sera, quando gli veniva data una zuppa, praticamente acqua sporca, e 125 grammi di pane. Sami, però, di sera poteva andare a trovare il padre nella sua baracca. Pochi giorni dopo il loro arrivo, cercò la sorella e, anche se all’inizio aveva stentato a riconoscerla, la trovò; ogni tanto riuscirono a incontrarsi e cercò di convincere anche il padre ad andare agli appuntamenti. Egli, però, si rifiutò di andare a vedere la figlia che, dopo un po’ di tempo, smise di presentarsi. Sami dice che il padre si lasciò andare, finché, una sera, disse che si sarebbe presentato in ambulatorio. Tutti e due sapevano che ciò significava andare a morire. “Poi mi ha detto: ‘Avvicinati’; io mi sono avvicinato. Mi ha messo una mano in testa. Mi ha dato la sua benedizione. Poi ha puntato un dito e mi ha detto:’Tieni duro, Sami, tu ce la devi fare'”.
Poi sono le ‘sorelline’, ai piedi della loro stessa baracca, che ci raccontano la loro vita a Birkenau. Ci avevano già spiegato che i bambini venivano mandati direttamente nelle camere a gas, a parte alcune eccezioni; quei pochi che andavano a destra venivano risparmiati perché spesso i medici facevano degli esperimenti sui bambini, in particolare sui gemelli. Tatiana comincia a raccontare: le due sorelle si salvarono anche perché furono prese in simpatia da una delle donne kapò che si occupava dei bambini del loro blocco. Fu questa donna, una volta, ad avvertirle: sarebbe stato chiesto loro se volessero essere ricongiunte alla madre, ma avrebbero dovuto rifiutare. Come aveva detto loro la kapò, i bambini furono poi riuniti e venne loro posta questa domanda; Tatiana e Andra dissero di no, ma il cugino Sergio, internato con loro nel Kinderblock, non ci riuscì. È Andra che, commossa, ci racconta cosa ne fu poi di loro cugino: fu preso, insieme ad altri 19 bambini, per essere portato nei pressi di Amburgo, dove subì’ degli esperimenti sulla tubercolosi. Alla fine della guerra, i medici della struttura cercarono di insabbiare la cosa: per eliminare scomodi testimoni, tutti questi bambini furono impiccati a dei ganci da macellaio nello scantinato di una scuola di Amburgo. Avevano passato la prima selezione perché Mengele le aveva scambiate per gemelle, anche se poi fortunatamente non dovettero subire esperimenti. Anche se erano state separate dalla madre, lei le andava a trovare nel Kinderblock e ricordava alle bambine i loro nomi, perché non perdessero la loro identità. Finché però., un giorno, non venne più: e per loro fu naturale pensare fosse morta, fosse uno dei tanti cadaveri che vedevano a mucchi nel campo. Non piansero allora, ricorda Andra: che cosa può essere avvenuto nel cuore di un bambino, se il pensiero della morte della madre viene vissuto come una realtà naturale per cui neppure una lacrima scende?
 
 
 
 

12 Aprile 2015
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