LA FABBRICA RICICLATA DAI DIPENDENTI
Non fosse per i murales e il tabellone che finisce con la parola Ri-voluzione, l’ingresso della Ri-Maflow a Trezzano sul Naviglio, hinterland milanese, sembrerebbe quello di un qualunque stabilimento in attività: controlli all’ingresso, cortile ordinato, luci in ufficio. Ma varcati i cancelli il clima cambia. La Ri-Maflow è un esperimento di fabbrica aperta “senza padroni” sul modello delle imprese recuperadas argentine, nato un anno fa sulle ceneri della Maflow, multinazionale di punta nel settore della componentistica per auto, mandata in malora prima dagli errori di un fondo finanziario e poi svuotata di macchinari, brevetti e commesse prestigiose (Bmw), delocalizzati in Polonia dall’ultimo proprietario.
«Era il febbraio 2013, la fabbrica, che un tempo impiegava 330 persone era ufficialmente fallita, noi eravamo fuori a presidiare da mesi, alcuni di noi avevano maturato un’idea – racconta Michele Morini, ex prototipista – invece che andare a cercare il lavoro che non c’era, creiamocelo da noi riciclando questa fabbrica morta». La Maflow non fa in tempo a chiudere che un manipolo la occupa. A marzo si costituisce la cooperativa onlus, (www.rimaflow.it) con una ventina di ex dipendenti e poi l’associazione Occupy Malfow, 600 soci. Obiettivo: realizzare un’attività industriale di recupero di attrezzature elettroniche (Raev).
Ma poi il progetto si amplia: trasformare la fabbrica in una cittadella del riuso e della solidarietà. «Da subito cittadini e aziende hanno portato vecchi computer ed elettrodomestici» dice Michele mostrando i macchinari immagazzinati. Nel frattempo si sono avviate attività collaterali: nel capannone A il bar, i concerti, la sala prove nella camera insonorizzata per i test di vibrazione, il coworking, il gruppo di Acquisto solidale Fuorimercato che tra l’altro vende la Ri-passata di pomodoro e le arance di Rosarno raccolte da lavoratori non sfruttati. Nell’enorme capannone B il sabato e la domenica c’è il grande mercato dell’usato, molto frequentato. «La città ha risposto bene – dice Antonio, cassintegrato di un’altra azienda che ha aderito alla coop – Il parroco ci ha pure mandato dei rifugiati da ospitare».
Persino la proprietà, un’immobiliare del gruppo Unicredit, tollera e abbozza: «Se non ci fossimo noi quest’area, 30mila metri quadri, metà di capannoni, sarebbe in abbandono – dice Michele – noi garantiamo sorveglianza e manutenzione gratis, a loro va bene così, dalle 9 alle 18 c’è sempre qualcuno e quando c’è il mercato anche dalle 7».
Di tasca loro i soci Ri-Maflow hanno rifatto gli impianti elettrici. «Con le attività collaterali e il riciclo elettronico ancora in fase iniziale siamo riusciti a comprare un muletto, un furgone e a mettere da parte 300 euro al mese ciascuno come rimborso spese, poi tutti siamo ancora in cig o in mobilità – spiega Massimo Lettieri, il sindacalista del gruppo, nella pausa di una delle riunioni settimanali della coop- ma nel 2014 l’attività di Raev diventerà centrale, stiamo lavorando con l’associazione di ingeneri senza frontiere del Politecnico per un piano industriale e chissà, magari dovremo anche assumere qualcuno». Troppo ottimista? Chissà, ma un anno dopo quella scommessa, la Ri-Maflow c’è ancora.
PAOLA RIZZI
@paolarizzimanca
Workers buyout, i lavoratori che si comprano le aziende
© RIPRODUZIONE RISERVATA