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5:00 am, 28 Novembre 22 calendario

Capire un grande tecnico come Luis Enrique: istruzioni per l’uso

Di: Redazione Metronews
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Luis Enrique non è uno ma è tanti: è un personaggio complesso e dalle mille sfaccettature, sicuramente una persona dal carattere complicato ed un allenatore divisivo. Chi non lo capisce -come è puntualmente successo a Roma, quando Luis allenò i giallorossi – non potrà mai dare un giudizio sereno sul tecnico asturiano. Per molti è un Guardiola low cost. Per altri un calvinista del lavoro che non ha la capacità di adattarsi  (“trabajo e sudor”, cioè lavoro e sudore, è la regola benedettina che impone senza sconti a chiunque si trovi ad allenare) e che crea pozze di malcontento ovunque.

Luis Enrique, una vecchia conoscenza

Noi italiani lo conoscevamo da quando Luis era un giocatore. E più precisamente da quando al Foxboro Stadium di Boston Italia e Spagna si giocarono l’accesso alla semifinale della Coppa del Mondo del 1994. Verso la fine della gara l’azzurro Mauro Tassotti, non visto dall’arbitro Puhl, gli rifilò una gomitata in pieno volto mentre Luis Enrique stava cercando di intercettare un cross di Goicoechea.

E lui si rialzò sanguinante, cercando una giustizia che non gli verrà concessa. Ma ma quelle foto non sono mai state dimenticate, in Spagna. I due si stringeranno la mano solo nel 2011, quando si incontrarono all’Olimpico ormai da allenatori (Luis Enrique della Roma e Mauro Tassotti secondo del Milan).

Foxboro Stadium di Boston, Mondiali 1994: Tassotti stende Luis Enrique con una gomitata./METRO

A dirla tutta già da quando era un giocatore, probabilmente, si capì che allenatore Luis Enrique sarebbe stato in futuro. A solo 21 anni fece il grande salto dallo Sporting Gijón  al Real Madrid. Un punto di arrivo per tutti ma non per lui.

Per un motivo o per un altro infatti lui – che sia tipo piuttosto suscettibile a dire la verità, è vero – e la calda tifoseria dei blancos non si presero mai. E con la dirigenza le cose non andarono poi molto meglio tanto che, alla scadenza del contratto, Luis lasciò il Bernabeu e Madrid senza troppi rimpianti.

Ed andò al Barcellona, l’universo parallelo rispetto al Real, la concorrenza. Qui divenne una stella in un firmamento di spettatori che lo amò. Non solo: qui fece l’incontro che gli cambiò la vita.

Uno dei suoi compagni di squadra era infatti tal Pep Guardiola, con il quale Luis condivise non solo il centrocampo o i successi, ma anche l’amicizia ed una comune visione del calcio. Distillata in ore e ore di discussioni a bordocampo a fine allenamento. Nei dopocena o nelle serate in ritiro.  Stava nascendo il tiki taka e tutto quel che ne seguì.

L’arrivo al Barcellona B

Quando a Barcellona decisero che Guardiola avrebbe potuto allenare la squadra, Luis Enrique divenne tecnico del Barcellona B: il loro calcio diveniva così manifesto di un club.

La differenza tra Guardiola e Luis Enrique è però che il secondo è uomo dai modi netti che non ammette sfumature e non reputa giusto  fare anche lo psicologo dei suoi calciatori. Per lui ci sono delle regole e dei doveri, che tutti devono rispettare. Le sue regole sono tavole della legge prima di tutto per lui: e si può crescere come gruppo solo all’interno di quei binari. Chi si pone fuori da quel perimetro è un nemico: Luis non guarda in faccia nessuno.

Quando allenava la Roma una volta De Rossi si presentò con un minuto di ritardo alla riunione tecnica prima di Atalanta-Roma: fu spedito in tribuna.

Per Luis vale solo il lavoro e l’allenamento è un importantissimo prologo della partita. Valuta l’allenamento come se fosse la partita.  Per questo motivo in un incredibile Roma-Slovan Bratislava di Europa League, nella stagione 2011/2’21, sostituì addirittura Totti con un giovanissimo Okaka. Una sostituzione di cui a Roma ancora si parla (la Roma fu eliminata, per la cronaca).

A Roma  dopo un pò dissero che non avrebbe mai vinto niente, ed infatti dopo un passaggio al Celta Vigo andò ad allenare il Barcellona dopo Guardiola e vinse tutto, triplete compreso.

La Spagna di Luis Enrique sta esprimendo un calcio tra i più convincenti al mondiale./METRO

Quando arriva Luis si cambia. Sì, perchè lui è un tecnico di personalità per nulla concentrato su se stesso. Ed è parecchio coraggioso nel puntare su giocatori giovanissimi (in Qatar ha portato una banda di ragazzini pieni di talento e rottamato gente tipo Sergio Ramos, per capirci). Lui disfa quello che trova, di solito. Ma ha dei valori solidi come ancoraggio: e a quelli si rifà sempre.

Nel 2019 ha perso la figlia Xana di 9 anni, affetta da un male incurabile. Per un periodo si è messo comprensibilmente in disparte, lasciando la panchina della Spagna all’amico e storico vice Robert Moreno, perchè gliela tenesse in caldo. Ma quando è tornato lo ha fatto fuori, senza mezzi termini e senza troppe spiegazioni. Netto come una tagliola.

Nella versione di Luis, Moreno sarebbe stato sleale, avendo provato a trasformare quel contratto a progetto con la Spagna in uno a tempo indeterminato. Ed il tradimento nel codice di Luis Enrique vuol dire morte. Perchè lui, appunto, non ammette deroghe ai principi.

Luis Enrique non ammette deroghe

Anzi non ammette deroghe e basta. Ne sanno qualcosa Totti a Roma, Messi a Barcellona, Jordi Alba e Sergio Ramos in nazionale. Ma questo fa parte della sua complessità, perchè la rigidità fa parte del suo essere uomo, ma la capacità di cambiare idea ed evolversi continuamente è invece insita nel suo essere allenatore.

Il tiki taka, per esempio. Un residuato bellico. Quello che la sua Spagna ha portato in Qatar è un  tiki-taka moderno, che appena può va dritto per dritto invece di limitarsi a un fraseggio sterile in cerca di varchi. Si tratta di una chiara evoluzione del pensiero di un allenatore che non è legato ad alcun dogma calcistico e sa cambiare. La tecnica di base degli interpreti comunque rimane, visti che i 549 passaggi completati nel primo tempo contro il Costa Rica,  un record nella storia dei mondiali da quando si calcola questo aspetto del gioco.

Di Luis Enrique i tifosi dissero che non poteva allenare e lo hanno esortato ad andar via./METRO

La forza del gruppo

La forza della sua Spagna è il gruppo. Altra specialità della casa di Luis Enrique.Il gruppo sacro, il gruppo è famiglia. Le esclusioni illustri di gente come Sergio Ramos e Thiago Alcantara (giocatori di grande personalità, autentici leader), spiegano bene il concetto. Ma gli sono valsi anche gli strali della critica: di cui Luis ha fatto spallucce, a modo suo. Ed ha tirato dritto. Perchè i suoi fuoriclasse si chiamano organizzazione, coraggio, idee, palleggio, verticalità, pressing e gruppo. Niente più di questo.

Il tecnico asturiano è uno che quando arriva cambia sempre qualcosa senza guardare in faccia a nessuno. Inevitabilmente per questo motivo a molti piace, a molti altri meno. Ma è anche un signore che sa perdere e non invoca scuse, cosa che nel calcio è più rara di un gol del portiere.

Nell’ ultimo Europeo, a Wembley, è stato eliminato dall’Italia ai rigori in una gara che avrebbe dovuto vincere. Tempo 15 minuti e si è presentato davanti ai microfoni della Rai con un sorriso un pò stirato (comprensibilmente) facendo i complimenti agli azzurri e anzi sperticandosi in un endorsement mai visto, dicendo che di lì in poi avrebbe fatto il tifo per l’Italia. Anche questa una cosa che non si era mai vista.

Il palco vista campo

Luis è  un allenatore moderno, visionario. Anche in Qatar, come a Roma, a Vigo, a Barcellona e poi con la Spagna, si è fatto montare in campo una torre per poter riprendere dall’alto gli allenamenti e rivedere poi ogni movimento. Ai calciatori concede il sesso con le compagne, ma sulla dieta è più severo di Savonarola: chi sgarra è un nemico.

La sua idea di sport è fatica. Niente Ferrari, niente chiome impomatate o tatuaggi. Sudore, solo quello. «Nulla viene dal nulla» ripete spesso. Ma più in generale la fatica è un orizzonte che gli appartiene anche come idea di libertà, visto che nell’affanno di quel centinaio di chilometri al giorno che percorre in bicicletta (anche in Qatar) trova forse una sua dimensione.

Pure la lista dei convocati l’ha data pedalando, ultimamente: non per fare scena, ma per potersi allenare un po’ anche quel giorno. Per potere fare, appunto, fatica.

Ultimamente si è dato alla meditazione. E questa piega un pò ascetica lo ha condotto dritto dritto fino all’earthing, cioè la teoria della messa a terra che garantisce al corpo di riequilibrarsi tramite il contatto dei piedi nudi con l’erba e la terra. Un riallineamento primordiale che allevia il mal di testa e regola (secondo la teoria) la pressione sanguigna, diminuisce lo stress e l’ansia, riduce il mal di schiena, consente una maggiore ossigenazione dei vasi sanguigni e dei capillari proprio attraverso il contatto a piedi nudi col suolo, perché gli esseri umani sono come antenne, captano elettricità dalla terra. Chissà.

Di sicuro Luis adesso è ad un livello tale per cui non ha nemmeno bisogno di giornalisti o tv per comunicare. Tutto ciarpame vecchio che lui ha gettato nel cestino. Lui tutte le sere si mette a chiacchierare con la gente su Twitch. «Perché voglio avere un contatto diretto con i tifosi». E tanti saluti ai Fabio Caressa della Spagna.

Luis Enrique spariglia sempre il campo e adesso sta cambiando ancora. Chissà che questo asturiano non riesca a lasciare un segno anche in Qatar.

 

 

28 Novembre 2022
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