“Ecco perché Gabriele d’Annunzio volò dalla finestra del Vittoriale”
La defenestrazione di Gabriele d’Annunzio avrebbe poco di “politico” e forse fu la risposta ad un gesto un po’ troppo galante, un’avance giudicata molesta. Sarebbe quindi da respingere la suggestione di un complotto politico ai danni dello scrittore e poeta poche settimane prima della Marcia su Roma.
Il “volo” di d’Annunzio
A sostenerlo Pietro Gibellini, già professore ordinario di Letteratura italiana all’Università Cà Foscari di Venezia, presidente dell’edizione nazionale delle opere di d’Annunzio, consigliere della Fondazione Il Vittoriale e direttore di “Ermeneutica letteraria”, “Letteratura e dialetti” e “Archivio d’Annunzio”, che pubblicato il libro “L’arcangelo caduto – Il misterioso incidente del 1922 nelle parole dello scrittore” (Edizioni Ianieri).
La sera del 13 agosto 1922 il Vate precipita da una finestra del Vittoriale, procurandosi una frattura al cranio che gli causa uno stato di incoscienza da cui esce lentamente restando infermo per varie settimane. Pochi giorni dopo doveva incontrarsi con Benito Mussolini e Francesco Saverio Nitti per cercare di pacificare il Paese in subbuglio: l’incontro salta, i legionari fiumani, rimasti senza Comandante, si sciolgono, e il capo del partito fascista ha campo libero per la Marcia su Roma, messa in atto il 28 ottobre 1922. Nascono subito i sospetti di un fatto doloso, di un complotto orchestrato dal futuro Duce per emarginare un concorrente pericoloso.
L’ipotesi dell’incidente “galante”
Pietro Gibellini ipotizza, invece, “un incidente galante” e appoggia la tesi sulla testimonianza oculare del giardiniere del Vittoriale che assistette alla caduta da bambino, Faustino Andreoli, e soprattutto ad alcune frasi pronunciate dal poeta nella convalescenza.
D’Annunzio, ricostruisce Gibellini, a cavalcioni sul davanzale e un po’ troppo su di giri, avrebbe fatto delle pesanti avances alla sorella della sua amante, la pianista Luisa Bàccara, e l’istintiva reazione della giovane Jolanda gli avrebbe fatto perdere l’equilibrio. “Un fatto colposo, insomma, per una intemperanza galante”, spiega lo studioso. Uscito dal coma, lo scrittore autore di “Il Piacere” riprende pian piano conoscenza. I medici si alternano al suo capezzale, registrando le sue parole, che oscillano fra toni umoristici (“papa Sarto è ‘nu fesso”), squarci imprevisti (“Soffro per tutto il mondo, soffro più di Cristo”), esaltazione patriottica (“Noi Italiani siamo tutti Dei: quegli altri dell’Europa sono tutti uomini, siamo spiriti azzurri e stelle”).
Il lungo testo orale di Gabriele d’Annunzio è ora curato da Gibellini nel suo volume “L’arcangelo caduto”. Il diario dell’infermo è corredato da altre pagine in cui d’Annunzio parlò di quell’infortunio, scritti suggestivi, spesso trascurati (come il “Conento meditato” del 1923, in cui vede nel suo delirio la rivelazione del mistero, e il “Libro segreto di Gabriele d’Annunzio tentato di morire” del 1935, dove presenta il volo dell’arcangelo come tentato suicidio).
“Quell’incidente, se non cambiò la storia, cambiò certo lo stile dello scrittore – commenta Gibellini – Rileggendo disordinate trascrizioni delle parole pronunciate nell’infermità, d’Annunzio maturò l’idea quasi psicanalitica di una modernissima scrittura ‘involontarià, sfociata poi nel Libro segreto”.
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