Teatro Milano
2:43 pm, 13 Marzo 22 calendario

Bruni: «Il nostro Edipo è un mito trasversale come le favole»

Di: Patrizia Pertuso
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TEATRO Edipo re. Una favola nera è il viaggio attorno al mito di Edipo che Ferdinando Bruni e Francesco Frongia metteranno in scena, in prima nazionale, da martedì 15 marzo al 14 aprile nella Sala Shakespeare del Teatro Elfo Puccini. Lo spettacolo e interpretato oltre che dallo stesso Bruni – che con Frongia ha tradotto e adattato il test da Sofocle – anche da Edoardo Barbone, Mauro Lamantia e Valentino Mannias. Questo viaggio visionario che tocca Seneca, Dryden e Lee, Thomas Mann, Hoffmansthal, Cocteau e Berkoff, si avvale dei costumi ideati dallo stilista Antonio Marras e delle maschere firmate da Elena Rossi. A raccontare la nuova produzione del Teatro dell’Elfo (https://www.elfo.org/spettacoli/2021-2022/edipo-re.htm) è Ferdinando Bruni.

È il vostro primo Edipo?
«Sì, è la nostra prima volta anche se alla fine degli anni ’90 avevamo messo in scena Fedra, poi Alcesti, toccò poi a Elio (De Capitani, ndr) presentare un lavoro sui primi due capitoli dell’Orestea e Francesco (Frongia, ndr) diresse Cassandra da Christa Wolf».

Prima di arrivarci ci avete girato intorno a lungo, insomma.
«Già. Siamo partiti da un’idea tradizionale di messinscena. Poi ci siamo accorti che il mito di Edipo va avanti dall’antichità, anche prima di Sofocle che per primo ne ha scritto, fino ai giorni nostri arrivando fino a Berkoff e a Pavese. È una favola che continua ad essere raccontata in modi diversi ma ogni volta riesce a colpire l’inconscio collettivo».

Perché usa il termine “favola”?
«Con questo termine mi riferisco ad una storia archetipica che conserva intatta la sua capacità di “fare senso”. Le favole non sono quelle per forza di cose con un lieto fine: sono delle storie che comprendono anche elementi perturbanti e lati oscuri».

Qual è il lato oscuro di Edipo?
«Il fatto che tutto ciò che succede non è colpa sua. È perseguitato dalla maledizione del padre che ha violentato il figlio di un re che ospitava. E per questa sua violenza su un ospite viene punito da Apollo che gli predice che suo figlio lo ucciderà. Edipo non vuole uccidere suo padre né sposare sua madre. Non fa altro che cercare di scappare dal suo destino ma ogni sua azione ce lo ributta a capofitto. Però, in tutto questo, Edipo trova il coraggio di intraprendere un’auto inchiesta su di sé e questo lo fa diventare un eroe, un uomo che ha il coraggio di guardare dentro sé stesso».

Sia in Edipo che in molte altre tragedie greche il “vedere” e il “veder-si”  è sempre un elemento fondamentale: non a caso Tiresia, non vedente, mostra a Edipo, ancora vedente, la realtà. Come viene trattato questo aspetto nel vostro spettacolo?
«L’accecarsi di Edipo è interpretato in due modi: da una parte si inquadra questo suo gesto come una punizione per non aver saputo vedere; dall’altra, invece, – e questa seconda è quella che seguiamo noi – lo strapparsi gli occhi è un modo per non essere distratto dal suo guardarsi dentro durante tutto il percorso che arriva a Colono e va oltre. Nel Re Lear di Shakespeare c’è il conte di Gloucester che dopo essere stato accecato, rivolto ad un servo che si offre di accompagnarlo, risponde: “No, quando vedevo ho fatto un passo falso”. Questa volontà di chiudere la visione dell’esterno per puntare sul problema che è dentro di noi è la vera volontà di Edipo».

E qual è la forza del “mito”?
«Sicuramente quella composta dalle dicotomie che mettono in relazione l’uomo con il dio, la colpa con il destino, la responsabilità personale e l’irresponsabilità verso ciò su cui non abbiamo alcun potere. Veniamo dall’Illuminismo, poco più di 200 anni fa, e viviamo con la convinzione che con la razionalità e con la volontà si ottenga tutto. In realtà, invece, dobbiamo fare i conti col fatto che non abbiamo potere su ogni cosa».

Tornando al vostro Edipo re, i costumi sono firmati da Antonio Marras che ormai è entrato a far parte della famiglia degli Elfi…
«Con Marras c’è un amore di lunga data: due o tre anni fa ci ha regalato un murale che è in teatro, ora questi splendidi costumi».

Si tratta quasi di sculture che vengono indossate dagli attori. Come è nata l’idea?
«Marras ha avuto un’idea drammaturgica dei bozzetti mentre noi costruivamo lo spettacolo: ha realizzato i costumi stratificando materiali esistenti così come noi abbiamo fatto con i testi. Così si sono assemblati addosso agli attori presentandosi come due “mantelli–gabbia” che inglobano due personaggi. Per realizzare il costume bianco ha addirittura usato 25 abiti da sposa. Queste creazioni fanno il loro ingresso in scena quando Edipo sposa Giocasta e restano lì per tutto il tempo in cui si snodano i 10 anni di regno felice, fino all’arrivo della peste: i due attori sono imprigionati in quei costumi così come lo sono nei loro ruoli. Ma poi scompaiono quella “tranquillità” scompare, i mantelli-gabbia si dissipano e gli attori restano nudi come fossero Adamo ed Eva in un dipinto del Masaccio».

In questo processo di assemblaggio e fissità prima, e di spoliazione e riduzione poi, come si inserisce l’uso delle maschere?
«La loro funzione è quella di far capire quale personaggio sta parlando. In scena ci sono quattro attori che interpretano diversi personaggi: Valentino (Mannias, ndr) è Edipo, Mauro (Lamantia, ndr)interpreta Giocasta e un corifeo, Edoardo (Barbone, ndr) rappresenta un altro corifeo, Manto, la figlia di Tiresia), il messaggero che annuncia la morte di Polibo ed io sarò la Sfinge, Tiresia, il pastore che consegna Edipo a Polibo, il terzo corifeo e la voce narrante di Laio nei video. L’unico che non indossa mai una maschera è Edipo».

Sono maschere molto particolari che richiamano un po’ quelle orientali: è una scelta?
«Assolutamente sì: ci siamo chiesti quali altre civiltà facessero uso delle maschere e abbiamo deciso di rappresentarle un po’ tutte».

Difficile recitare con le maschere: anche se queste lasciano spazio alla bocca, il volto è coperto. Su cosa avete puntato?
«Soprattutto sulla voce e sul movimento e poi anche sull’uso del costume, sulla musica e sui video».

Che ci dice della scelta della parte musicale?
«Volevamo creare un clima dark contemporaneo e abbiamo attinto a piene mani soprattutto dalla musica orchestrale di Nick Cave».

E i video?
Sono tutti di Francesco (Frongia, ndr) che li ha voluti realizzare in bianco e nero: illustrano il fantasma di Laio che appare tre volte, la peste, la cerimonia e il sacrificio».

A proposito di sacrificio nelle note di regia si legge che questo Edipo ha una “dimensione sciamanica”…
«Vogliamo proporre una visione, un sogno, un incubo per certi versi, in cui l’attore si immerge e, facendo sua quella che Artaud identificava con la Crudeltà del teatro, la trasmette allo spettatore. Abbiamo deciso di intraprendere questa strada perché vogliamo recuperare il rapporto col Sacro che c’è nel teatro. Si può fare solo uscendo dal contemporaneo e ponendosi in uno spazio-tempo Altro, quello stesso spazio-tempo in cui si pone lo sciamano nei riti religiosi».

C’è un momento, una frase, una scena in cui lei “sente” che Edipo è proprio lì?
«Quando riprendiamo il testo un po’ ostico di Hoffmansthal sia all’inizio che alla fine dello spettacolo. In questo momento Edipo dice: “In questo mondo niente ha più bisogno di un nome”. Ed è lì che il mito rompe tutti gli schemi e diventa tale».

A quando “Edipo a Colono”?
«Ora ci pensiamo….».

Info e prenotazione: tel. 02.0066.0606 – biglietteria@elfo.org

PATRIZIA PERTUSO

13 Marzo 2022
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