Afghanistan
11:43 am, 30 Agosto 21 calendario
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Afghanistan, «Mia sorella chirurga, in ospedale con il kalashnikov»

Di: Paola Rizzi
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«Finora sono riuscito ad aiutare tre persone ad arrivare in Italia con le loro famiglie, sono in contatto continuo con il ministero degli Esteri per portare il mio aiuto ad altri che sono rimasti là, ma ora è tutto più difficile». Chi non è riuscito a portare in Italia Walimohammad Atai, rifugiato afgano di 25 anni che vive tra la Puglia e la Lombardia dal 2012, è sua sorella Salma (nella foto). Non per le difficoltà insormontabili nel far uscire le persone dal paese Afghanistan in mano ai talebani, ma perché lei, medica in un ambulatorio di una provincia rurale al confine con il Pakistan, semplicemente non vuole, nonostante sia rimasta anche ferita.

Atai con Gino Strada in un incontro a Milano

Arrivato a 16 anni in Italia aggrappato sotto un camion dopo un lungo peregrinare tra Iran e Turchia, Wali, come lo chiamano gli amici italiani, porta un fardello pesantissimo. Suo padre, medico, è stato ucciso nel 1996 dai talebani, quando lui era appena nato, un fratello è stato picchiato al punto da perdere il senno, un altro è fuggito in Germania. Lui ragazzino, nel suo villaggio, pattugliato di giorno dai governativi e di notte dai talebani, aveva provato ad aprire una scuola di inglese per strappare i bambini alle madrase dove viene inculcato il martirio come massima aspirazione di ogni ragazzo, ma dopo essere stato più volte minacciato, è fuggito. La sua storia l’ha raccontata in due libri, l’ultimo dal titolo emblematico Il martire mancato. Come sono uscito dall’inferno del fanatismo. Ora si sta laureando in scienze politiche, lavora come educatore professionale in una comunità per i minori  a Magnago in Lombardia e come traduttore e interprete giurato per lo stato (conosce sei lingue).

Wali, come sta sua sorella?

«Abbastanza bene ma ha rischiato molto, nello stesso attentato è morto un mio zio paterno». 

Come è successo?

«Mia sorella ha 27 anni, è medica e porta avanti l’associazione FAWN (Free Afghan Women Now) per l’emancipazione dei diritti delle donne, che abbiamo fondato insieme. Mio zio paterno, ex pilota e pediatra, era nella sede d’associazione con i volontari per preparasi alla fuga in caso la situazione si deteriorasse, quando c’è stato l’attentato. Lo zio è morto subito insieme a due volontari e mia sorella che si trovava nelle vicinanze è stata colpita dalle schegge dei vetri. Ha avuto le ferite alle gambe e alle braccia. Ma appena ha potuto è tornata a lavorare nell’ospedale che abbiamo aperto insieme»

Dove si trova l’ospedale?

«In un villaggio nella provincia di Nangarhar ai confini con il Pakistan.  Mia sorella ha avuto l’idea di costruire un piccolo ospedale intitolato a nostro padre Atai. Con tanta fatica siamo riusciti a realizzare questo sogno grazie anche a molte donazioni: nel 2019 abbiamo cominciato la costruzione e ad aprile di 2021 finalmente l’ospedale, un ambulatorio con  3 infermieri e un’ostetrica, più un’altra persona che guida l’ambulanza, oltre a mia sorella che lo dirige, ha accolto donne e bambini che prima facevano ore di strada per raggiungere l’unico centro medico della provincia».

L’ospedale diretto da Salma Atai

Sua sorella non si è sposata e fa il medico, una scelta coraggiosa per una donna afgana

«Sì, perché la realtà che in molte zone dell’Aghanistan in questi vent’anni non è cambiato nulla per le donne, ma lei è riuscita: ho lavorato duro in Italia e le mandavo i soldi per pagarsi studi e l’affitto, la incoraggiavo sempre anche se lei temeva di non farcela. Invece, come diceva mia nonna paterna che era una donna illuminata,con il duro lavoro l’impossibile diventa possibile».

Ma adesso le è ancora permesso lavorare?

«Le donne non possono piu lavorare, ma mia sorella è tosta, va in ospedale con il kalashinkov e non vuole fuggire dall’Afghanistan. Ora bisogna vedere fino a quando l’ospedale rimarrà aperto. Anche i talebani hanno bisogno di cure mediche e l’ospedale si trova in mezzo alle montagne, per ora non dicono niente. Ma io ho molta paura per lei».

E’ in contatto con altri parenti?

«Si certo, ci sono due miei fratellastri, anche loro medici, che ora sono a Kabul e vorrebbero andarsene. Uno era uno specializzando ma molti dei suoi professori sono fuggiti, molte università sono chiuse. Ho dato i loro nomi alla Farnesina, ma ora è tutto molto difficile».  

E’ sorpreso di come siano precipitate in fretta le cose in Afghanistan?

«Ma no, noi lo sapevamo che sarebbero andate così. A Doha americani e talebani hanno fatto l’accordo di nascosto dagli afgani. In 20 anni di guerra, con 45 nazioni coinvolte,  le cose nel mio paese sono andate sempre peggio, tant’è che io, nel 2012, a 11 anni dall’occupazione,  sono dovuto fuggire se no rischiavo che mi ammazzassero. I talebani non se ne sono mai andati e in più è arrivata l’Isis. E’ un dato di fatto. E non credo che ora siano diventati tanto buoni, forse sono migliorati perché fanno accordi con gli Usa, ma nel giro di pochi giorni hanno ucciso cinque cantanti e rinchiuso le donne in casa. No, non sono più buoni»

30 Agosto 2021 ( modificato il 6 Settembre 2021 | 17:22 )
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