Adriano Panatta 70 anni di “pof, pof” /LE FOTO
TENNIS Uno Slam in terra di Francia, dieci tornei del circuito maggiore, il 62 per cento di vittorie nei match disputati a livello professionistico. Non tantissimo, se vuoi, per un top ten, in 14 anni di carriera. Certo, mai nessuno come lui nel 1976: i trionfi a Roma e Parigi, la prima e unica Coppa Davis della nostra storia strappata al Cile di Pinochet, il settimo posto in classifica a fine anno (è stato anche numero 4, meglio di lui soltanto Nicola Pietrangeli). Eppure, di Adriano Panatta – compirà 70 anni il 9 luglio – il tennista italiano più importante del mezzo secolo 1970-2020, si ricordano tanto anche memorabili sconfitte. Quella nel ’79 nei quarti a Wimbledon contro il modesto Pat Dupré, tre spanne inferiore. La finale a Roma nel 1978 al quinto contro Borg (quella delle monetine lanciate in campo dagli spalti). La battaglia agli Us Open (quarto turno) contro Jimmy Connors (1978), forse la migliore partita di Adriano di sempre. Sedici finali perse contro 10 vinte, quasi tutte sfumate per un errore di troppo, un calo fisico, un passaggio a vuoto. «Non è vero che sono pigro – ha dichiarato al Corriere della Sera – la verità è che avevo un gioco molto rischioso, da equilibrista, senza margini, che mi richiedeva di essere sempre al cento per cento. E poi avevo tanti interessi, mica solo il tennis. Certo, tornassi indietro, sono sincero, alcune cose non le rifarei». Ci crediamo.
Panatta è entrato nella storia di questo sport anche per quello che sarebbe potuto essere, più di così, e non è stato. Quanto a talento puro – purtroppo non esistono algoritmi che possano validare una classifica della classe tennistica – l’ex Re del Foro Italico entra per acclamazione nel gruppetto dei migliori di sempre. Un “braccio assoluto”, lo stesso che hanno avuto Laver e Ashe, Nastase e Federer. Gesti eleganti e sorprendenti, come nessun maestro potrà mai insegnare. Certi giorni Panatta è stato immortale, tennista universale e completo. In Davis a Roma nel ’79 spiegò a un giovane Ivan Lendl cosa fosse il tennis, con un 60/60 negli ultimi due set (un ace battendo da sotto) che umiliò quello che di lì a poco sarebbe stato il dittatore del circuito. Al primo turno del Foro nel ’76 fu capace di annullare 11 match-point all’australiano Warwick con un paio di smorzate e una volé in tuffo, per poi piegare in finale la resistenza di Guillermo Vilas, un Rafa d’altri tempi. Migliaia i “15” da applausi “tutti in piedi” che oggi avrebbero sbancato su YouTube. Lampi di divinità che avrebbero meritato traguardi migliori, almeno un altro Slam, almeno il primo posto in classifica per qualche settimana: sì, perché se i più forti di allora si chiamavano Borg e Connors, McEnroe e Orantes, Ramirez e Gerulaitis, il Cristo dei Parioli ce l’avrebbe potuta fare, ce l’avrebbe dovuta fare ad arrivare in vetta.
Adriano Panatta è stato un autentico “numero uno” che non è mai diventato numero uno. Sarebbe bastato forse un pizzico di Djokovic nel sangue, o magari uno zio come quello di Nadal sugli spalti. Ai suoi tempi non si usavano i coach, ma se Adriano avesse incontrato Ivan Ljubii sulla sua strada (o la mamma di Andy Murray) avrebbe certamente messo tutti in riga a suon di servizi slice e attacchi in back di dritto (dopo di lui, solo McEnroe e Federer hanno salvato la specialità dall’estinzione). A 70 anni ben portati Panatta scrive libri sul tennis col suo amico e consulente giornalistico Daniele Azzolini, conduce trasmissioni radiofoniche su Radiouno accanto a Claudio Sabelli Fioretti e Nicoletta Simeone, dirige una rivista (Match Point), è ospite ambito in programmi televisivi (Fabio Fazio ha una passione per lui), gira l’Italia con i suoi “campioni per amici” Daniele Lucchetta, Yuri Chechi e Bruno Conti a incontrare i ragazzi delle scuole. Ha chiuso già da un po’ con la politica (è stato consigliere comunale con Rutelli sindaco, oggi simpatizzante zingarettiano), e con la motonautica, dopo la morte dell’amico Stefano Casiraghi nel 1990. Ha chiuso anche con la Federazione (Panatta è stato un longevo e capace capitano di Davis, direttore degli Internazionali d’Italia), dopo una lunga e faticosa battaglia (anche legale) che lo ha visto scontrarsi – e perdere – con l’attuale presidente Angelo Binaghi. Romanista sofferente, padre di tre figli, un matrimonio durato una vita con Rosaria Luconi, oggi ha una compagna trevigiana, Anna Bonamigo, per la quale ha lasciato Roma e rilevato l’ex Sporting Club di Treviso. Vuole farne un circolo all’antica dove si possano insegnare i colpi classici, quelli che non si usano più, piatti e piazzati, che fanno emettere alle corde di una racchetta il vero suono del tennis, quel “pof, pof, pof” dell’ormai celebre cameo cinematografico ne “La profezia dell’armadillo” di Daniele Scariggi (gli è valso un Nastro d’argento nel 2019).
In televisione a parlare di tennis Panatta va sempre più di rado. E’ stato commentatore accanto a Giampiero Galeazzi, negli anni Novanta, e ai telecronisti di Eurosport in tempi recenti, ma solo negli Slam e per semifinali e finale. Il tennis di oggi, tutto muscoli e bordate da fondo, lo annoia a morte e non ne ha mai fatto mistero nemmeno in diretta. Lui guarda Re Roger, quando capita, il più grande di tutti, l’unico tennista per il quale sembra mostrare rispetto assoluto, quasi timore reverenziale. Re Roger che per certe movenze intorno alla palla lo ricorda (altre corde, altre racchette, altre scarpe, ma alcuni movimenti dei due si somigliano assai). Federer – spiega sempre Adriano – gioca a tennis come nessuno ha mai fatto prima, non importa cosa dice la statistica.
Oggi, dalla sua nuova vita lontano dal Centrale, Adriano Panatta dà l’impressione – a leggere tra le righe delle sue interviste – di non aver ancora chiuso la partita con lo sport che lo ha reso celebre, malgrado un palmares forse solo buono, per un talento come lui. Come se serbasse ancora una smorzata di rovescio, una veronica spalle alla rete da far venire giù lo stadio. Per chiudere da numero uno (dirigente? politico?) una vicenda bellissima cominciata tanti anni fa al Tennis Club Parioli, dove papà Ascenzio faceva il guardiano. A campioni e campioncini di oggi la vicinanza di un questo signore farebbe ancora un gran bene. Perché è vero che il talento assoluto non si può insegnare, ma ascoltare il “suono del tennis” può aiutare anche i più modesti a capire il senso vero di questo gioco.
AGI
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