La fatica di essere pigri durante il lockdown
Poltrire. Sentire il corpo allentare. Non avere più voglia di alzarsi. Sentirsi in colpa per la nostra pigrizia. Ma è giusto così? E se questi mesi ci avessero forse insegnato che essere pigri è un valore? Da Oblomov a Paperino nel suo libro “La fatica di essere pigri” (Cortina, p. 163 euro 14) Gianfranco Marrone racconta la storia della pigrizia che incrociandosi con l’ozio e con l’accidia ha radici antiche.
Essere pigri è un atto di amore per se stessi?
«Secondo il senso comune sembra un’aspirazione di tutti: allontanare il mondo e i suoi affanni e ritrovare dei propri ritmi. Però quando durante il lockdown ci hanno costretto a restare in casa non facevamo altro che lamentarci di questa forzata pigrizia. Ricordo il post di una persona che diceva “meglio morire che non lavorare”. Tutti quanti abbiamo manifestato l’enorme stanchezza di non fare niente: un paradosso».
Cosa significa l’incapacità di far fruttare l’ ozio tanto agognato?
«Le società capitalistiche ci hanno abituato a un ritmo di vita scellerato. Lo sapevamo ma non lo avevamo mai vissuto direttamente. Da decenni si è rotta la divisione tra tempi del lavoro e tempo libero e il tempo libero è diventato il tempo del consumo. Finiamo di lavorare e ci gettiamo nei centri commerciali, o facciamo sport. E poi i viaggi, un must».
Nel suo libro lei parla del lavoro a maglia come l’ideale del lavoro per sviluppare “l’arte di essere pigri”….
«Sì, si tratta di un lavoro senza motivazioni: la maglia, la pittura, ma anche la scrittura sena motivazione economiche. Sono esempi di “pigrizia riuscita” che non è funzionale a una organizzazione economica ma ad un’opera che viene realizzato».
Se tutti diventiamo pigri che succede?
«Il problema è un altro, che si pone anche dopo un periodo di pandemia come questo: siamo sicuri che il progresso è migliore della stasi? Chi l’ha detto che progredire come abbiamo fatto finora faccia bene a noi e al pianeta? Forse fermarsi potrebbe essere positivo».
ANTONELLA FIORI
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