GIORNATA DELLA MEMORIA
6:00 am, 24 Gennaio 19 calendario
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Stefano: «Così, bambino, fuggii dal ghetto di Varsavia»

Di: Sergio Rizza
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MILANO – Fuggì, bambino, dal ghetto di Varsavia. E visse, fuori dal ghetto, il suo secondo inferno: solo, braccato dai tedeschi, nascosto in una soffitta, sequestrato da loschi profittatori, angariato come un reietto ebreo in un orfanotrofio di Cracovia. La sua drammatica vicenda si concluse solo nel ’46, a Napoli, dove, con la madre, potè riabbracciare il padre, che aveva combattuto a Montecassino con il generale Anders. Una famiglia miracolosamente ricomposta. Che dall’Italia non si mosse mai più.
Quello spaurito bambino ebreo, che la vita ha messo di fronte ad avvenimenti enormemente più grandi di lui, è ora un signore di 80 anni. Lo incontro, in esclusiva per Metro, nella sua prima intervista mai rilasciata, nella sua casa di Milano. Qui ha preso la cittadinanza italiana rinunciando a quella polacca, qui ha vissuto, studiato (le medie in piazza Ascoli, il liceo classico al Carducci, la laurea in Bocconi nel ’61), gestito l’azienda del padre. «Mi piacerebbe», dice, «conoscere Roman Polanski. Abbiamo avuto una vicenda molto simile…». Mi parla della sua storia per coltivare la memoria, per dimostrare che il Male è stato: «Se delle persecuzioni si perdesse il ricordo, qualcuno potrebbe pensare che non siano mai avvenute». Ma sono anche ricordi intimi, dolorosi, che toccano la sfera dei sentimenti famigliari. «Non mi va di metterli in pubblico assieme alla mia faccia». Perciò chiede di restare anonimo. È Stefano, e basta.

Stefano, com’era la tua famiglia?

«Sono nato a Varsavia nel 1937 da mamma Maria Zimnowoda e da papà Jerzy. Medio-piccola borghesia. Mia madre era di famiglia ebraica osservante, molto tradizionale, parlavano yiddish. Mio padre no, era ebreo integrato, di famiglia laica. Era ingegnere, aveva un’attività di apparecchiature elettriche. Quando scoppiò la guerra, con l’invasione tedesca del ’39, venne mobilitato come ufficiale e mandato a combattere nella parte orientale della Polonia, quella aggredita dai sovietici. Fu catturato e spedito in un gulag in Siberia».

Fu la sua fortuna.

«Rilasciato dalla prigionia, mio padre si unì al corpo d’armata del generale polacco Anders, per poi trasferirsi in Palestina e di qui in Italia, dove combattè, aggregato agli inglesi, a Montecassino. Per anni io e mia madre non avemmo notizie di lui».

Nel frattempo tu e tua madre eravate rimasti a Varsavia, dove nel 1940 i tedeschi crearono il ghetto. Eri piccolo. Cosa ricordi?

«Nel ghetto fummo costretti a trasferirci io, mia madre, mia nonna materna e una zia paterna. Le condizioni erano molto difficili. La gente moriva di fame. Noi, per fortuna, qualcosa da mangiare l’avevamo: mia madre lavorava in una fabbrica tedesca. Ho dei flash. I cavalli, per esempio».

I cavalli?

«Morivano di fame per la strada, come gli uomini. La gente accorreva con coltelli e asce per farli a pezzi. Io mi rifiutavo di mangiare carne di cavallo, la vomitavo. Per me era quasi un animale domestico. È uno dei primi ricordi della mia infanzia. E poi ne ho uno di grande sofferenza fisica».

Quale?

«Mi fecero sdraiare sul tavolo della cucina e mi sottoposero a una specie di operazione di chirurgia plastica per ricostruire il prepuzio. Era un tentativo di farmi passare per non ebreo, ovviamente. Non ricordo i dettagli: ricordo solo l’anestesia inefficace, le dolorosissime medicazioni, l’esito fallimentare».

E poi c’erano i tedeschi.

«Funzionava così. I tedeschi, nel ghetto, circondavano ogni giorno un condominio, facevano scendere gli abitanti e li portavano tutti alla Umschlagplatz. Lì, nella piazza della vecchia stazione ferroviaria merci riconvertita alla esigenze della deportazione, facevano la selezione. Quelli in buona salute e in buona forma, li lasciavano o li avviavano al lavoro. Quelli malfermi, o i bambini, soprattutto i bambini, li caricavano sui treni, dopo averli separati dalle loro famiglie. Un giorno, sarà stato il ’42, ero solo in casa con mia zia. Arrivarono i tedeschi e ci portarono proprio alla Umschlagplatz. Mia zia mi teneva per mano. Fummo separati. Rimasi circondato da adulti, nella confusione. Nessuno si occupava di me. Fu straziante. Un ricordo violento».

Stefano, ti salvasti dalla selezione. Come fu possibile?

«Un mio zio, fratello di mia madre, guidava l’ambulanza. Venuto a sapere che ero lì, mi acciuffò, mi portò in un piccolo ospedale da campo in un angolo della piazza e mi bendò completamente. Io chiedevo: “Perché mi bendate? Io non ho niente”. Mi caricarono sull’ambulanza, e mio zio, miracolosamente, riuscì a farmi uscire da Umschlagplatz e a riportarmi a casa, dentro al ghetto ma al sicuro».

Venne poi la tua fuga dal ghetto, assieme a tua madre. Fu prima della rivolta ebraica del ’43, ovviamente.

«Sì, certo. Il piano era semplice, ma rischiosissimo. Fuori dal ghetto viveva una sorella di mio padre. Aveva sposato un cattolico, figlio di un consigliere economico del governo. Una famiglia ricca e influente. Pagarono una donna non ebrea, che tutti i giorni, col figlioletto, entrava nel ghetto per lavorare grazie a un permesso speciale. Lei un giorno entrò e ci passò i suoi documenti. Così, io e mia madre potemmo uscire. Ricordo la lunga fila di persone, mia madre che mi teneva per mano, i tedeschi che controllavano i documenti. Non guardarono bene il nostro, per fortuna. Passammo. Il giorno dopo, la donna e suo figlio, che avevano trascorso la notte nel ghetto, riebbero i loro documenti per poter uscire».

E la zia e la nonna che vivevano con voi?

«Non abbiamo mai più saputo nulla di loro».

Fuori dal ghetto come vi sistemaste?

«Facemmo subito documenti falsi. Adottammo un nuovo nome, ariano, Staniszewski. Mia madre, che sapeva bene il tedesco e non aveva affatto un aspetto da ebrea, trovò lavoro come segretaria in una ditta tedesca. Io, invece, che avevo delle fattezze semitiche, fui messo al sicuro e portato da una signora molto gentile. Faceva l’insegnante. Mi teneva senza alcun compenso. Scrisse anche dei racconti su di me, poi pubblicati e tradotti in ebraico, riuniti in un libro che si titolava “Historia Ciapuša”, dove Ciapuša vuol dire ragazzino imbranato, detto però in modo molto benevolo».

Quanti anni avevi? Tua madre veniva a trovarti spesso?

«Avrò avuto cinque o sei anni. Non veniva a trovarmi se non raramente. Quando arrivava io non la riconoscevo, dentro di me, come mia madre».

Quanto tempo rimanesti in casa di questa signora?

«Non ricordo. Ricordo bene, però, il giorno in cui arrivarono i tedeschi. Cercavano ebrei evasi. La signora mi disse: “Nasconditi subito in solaio!”. Io ero spaventatissimo, il cuore mi batteva all’impazzata. Mi nascosi in un’intercapedine del solaio. Salì un soldato tedesco per fare un’ispezione, non mi vide e se ne andò. Dopo questo episodio, la signora mi disse che non se la sentiva più di tenermi. Così fui portato in un’altra casa, dove la padrona alloggiava altre persone, adulti».

Sempre gratis?

«No, stavolta a pagamento. Lì avemmo un’altra brutta avventura. Si presentarono, un giorno, un uomo vestito da SS e alcuni altri in borghese. Dicevano di essere alla caccia di ebrei fuggitivi. Fecero abbassare i calzoni e le mutande a tutti, per vedere se vi fossero circoncisi. Io scappai, senza uscire dal cortile: ero sempre stato rinchiuso in appartamenti, non ero mai stato da solo all’aria aperta e avevo paura di precipitarmi in strada. Uno degli uomini in borghese mi afferrò. E mi portò, assieme agli altri, da un’altra parte. Ma non erano veri tedeschi, secondo me. Erano solo imbroglioni travestiti. Profittatori. Chiesero un riscatto e lo ottennero, grazie alle risorse della sorella di mio padre».

Tornasti con tua madre?

«Sì. La città era ridotta in macerie, si andava verso la fine della guerra. Io e mia madre vivevamo in una cantina. C’era da mangiare solo farina piena di crusca e…marmellata. Tu sai cosa significa mangiare solo cose dolci per lunghi periodi? C’è da impazzire. Con la grande rivolta del ’44 (agosto-ottobre 1944, ndr) Varsavia fu evacuata e io e mia madre ci separammo di nuovo. Lei fu mandata in un campo di lavoro. Io, dopo un viaggio interminabile, avventuroso, durato settimane, in un orfanotrofio gestito da suore vicino alle miniere di sale di Wieliczka, nell’area di Cracovia».

Che periodo fu?

«Tremendo. Le suore mangiavano, noi no. Quelli più grandicelli potevano lavorare nei campi e rimediare qualcosa da mettere sotto i denti. Ma io ero troppo piccolo. Non mangiavo quasi niente. Ero allo stremo. E poi si moriva di freddo. Finché un giorno non vennero dei contadini per adottarmi».

Per adottarti?

«Sì. Erano marito e moglie. Volevano un bambino da adottare. Scelsero me. Mi portarono a casa. La prima cosa che fecero fu di farmi un bagno. Ero lurido. Spogliandomi, però, si accorsero che ero circonciso. Fu un brutto colpo».

Che cosa fecero?

«Erano brave persone. Mi curarono, avevo la faccia gonfia e la parotite, poi mi dissero che non potevano tenermi. Così, mi riportarono all’orfanotrofio delle suore. Che per me fu un inferno».

Perché?

«Perché vennero a sapere che ero ebreo. Cominciarono a maltrattarmi tutti, anche le suore. Diventai un reietto. Mi davano la metà del pane che mi spettava: “Tanto tu sei piccolo”, mi dicevano. Finché un bel giorno arrivò una signora per me. Mi portò un panino, che io divorai avidamente, tenendo d’occhio lo sguardo invidioso degli altri. E disse di essere mia madre. Ma io non la riconoscevo. Questa è una cosa tremenda. L’avevo rimossa, perché mi sentivo abbandonato da lei».

Ti portò via con sé?

«No. Prese una decisione che ebbe un effetto terribile su di me. Mi disse: “Non posso portarti via subito con me. Devo procurarmi degli abiti adatti. Aspettami qualche giorno”. Io non le credetti. Pensai che volesse abbandonarmi di nuovo. Avrebbe dovuto portarmi via subito. Quando se ne andò, quei ragazzacci mi dicevano: “Quella dice di essere tua madre. Ma vedrai, non tornerà mai più”. Furono giorni terribili».

Tornò, però.

«Sì. Con abiti caldi. Aveva un cappotto che era appartenuto a un soldato russo, era caldo, imbottito di cotone, aveva il foro di un proiettile sul petto, era di una taglia enormemente più grande della mia».

Stefano, a quel punto, riuniti, cosa faceste?

«Tornammo a Varsavia in treno. Un viaggio interminabile. Una volta arrivati, alloggiammo in una casa semidemolita. Poi ci trasferimmo a Lodz, assieme a mio zio materno».

Quello dell’ambulanza?

«Sì, proprio lui. Era stato caricato su un treno per i campi di sterminio, ma riuscì a salvarsi sgattaiolando via, assieme ad altri due o tre, da un finestrino del vagone. Ha campato fino a 91 anni. Poi venne in Italia. Sua figlia vive ancora oggi a Roma».

Tu e tua madre fosti chiamati in Italia da tuo padre?

«Sì, nel ’46. Lui era capitano dell’esercito inglese, dopo aver combattuto ed essere stato ferito a Montecassino. Venne a sapere, non so come, che eravamo ancora vivi. Ci mandò i soldi e ci fece venire dove era di stanza lui: a Napoli».

Dove, finalmente, tu lo incontrasti.

«Sì. Era come se lo vedessi per la prima volta. Aveva 39 anni. Abbracciarlo fu una cosa meravigliosa. Indescrivibile. Una emozione enorme. Mi era mancata moltissimo la figura paterna. Con lui, poi, ho sempre avuto un grande rapporto. È morto nel 1990».

Con tua madre, invece?

«Con lei ho sempre avuto un rapporto più difficile. Avevo dentro di me il risentimento per l’abbandono. Poi, certo, mi sono reso conto che non era colpa sua, poveretta. Un grandissimo psicanalista, Enzo Morpurgo, mi ha ridato la vita».

SERGIO RIZZA
Twitter: @sergiorizza

24 Gennaio 2019 ( modificato il 1 Dicembre 2021 | 18:50 )
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