Nuovi schiavi
10:36 am, 13 Ottobre 16 calendario

Schiavi del lavoro per una nostra t-shirt

Di: Redazione Metronews
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Genova – I nuovi schiavi hanno il volto dei ragazzi vietnamiti che lavorano il tessile, dei cinesi che fabbricano i telefonini di ultima generazione, pagati pochi spiccioli, costretti a turni massacranti. Sono un anello di una catena economica che porta prodotti e beni nelle nostre borse, sulle nostre tavole, nei nostri grandi centri commerciali. 
Nel 2012 l’Oil, l’organizzazione internazionale del Lavoro ha detto che i “forced labour”, cioè persone che prestano attività lavorativa sotto minaccia fisica, psicologica, finanziaria e senza una retribuzione adeguata, sono 21 milioni, di cui 5,5 minorenni. E questa schiavitù genera un illecito guadagno da 150 miliardi di dollari l’anno. 
A volte si innestano nei tessuti economici delle nostre città. Come nei giorni scorsi nel napoletano, dove gli operai si sono ribellati, aiutati da associazioni locali, contro la mala bengalese. 
Se ne parlerà domani in un convegno organizzato a Genova “Impresa e forced labour”.
“Chi accumula ricchezze con sfruttamento, lavoro in nero, contratti ingiusti, è una sanguisuga che rende schiava la gente”. L’ha detto Papa Francesco. E il parlamento britannico è passato all’azione quando, a valle della direttiva del 2011 dell’UE sull’antitrafficking, con il Modern Slavery Act del 2015 ha imposto un vincolo di trasparenza a carico delle imprese. Affinchè i cittadini possano scegliere. E acquistare consapevolmente. 
L’intervista/ Francesco Buccellato
«Nelle miniere di cobalto, nelle industrie del tessile, nelle fabbriche tecnologiche dei nostri telefonini: è lì che si annidano i nuovi schiavi. Noi consumatori occidentali non possiamo rimanere distratti». Parola dell’avvocato e ricercatore di diritto commerciale all’Università degli Studi di Perugia Francesco Buccellato, uno dei massimi esperti di questo tema e che ha curato con Matteo Rescigno (ed. Il Mulino) il libro: “Impresa e forced labour: strumenti di contrasto”. 
Ma il nostro sistema economico potrebbe reggere una regolarizzazione di questa schiavitù?
Eh, considerando che questo sfruttamento genera illeciti profitti per 150 miliardi di dollari…
Ma cosa si può fare?
Dal punto di vista giuridico si può garantire il consumatore affinchè compia una scelta consapevole. È quanto è stato fatto nel 2015 in Gran Bretagna con una legislazione ad hoc che impone dei vincoli di trasparenza alle imprese. In Italia abbiamo qualche norma utile in tal senso nel codice del consumo. Ma ci vorrebbe la volontà politica di riordinare la materia e di recepire organicamente la direttiva  europea del 2011, con particolare riguardo alla delinquenza economica.  
Invece da noi in Italia vige l’impegno volontaristico delle aziende, che sembra assunto più per fini di marketing che altro, e in genere le politiche di sostenibilità vengono messe in atto dopo che ci si “scontra” con qualche campagna di qualche Ong…
Una soluzione è dare al consumatore finale la consapevolezza della scelta. Vuoi comprare questa maglia realizzata con lo sfruttamento del lavoro oppure no? Ma poi va detto con chiarezza che non è oltre ammissibile delocalizzare o ricorrere a terzisti computando i vantaggi connessi allo sfruttamento, seppure in via indiretta, di lavoratori costretti in condizioni di schiavitù o a discapito di ogni condizione di sicurezza e di equa retribuzione.  
STEFANIA DIVERTITO

13 Ottobre 2016
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