Slaboshpytskiy: “Do voce al silenzio”
ROMA Se quest’anno è stato l’argentino Santiago Mitre con “Paulina” ad aggiudicarsi il riconoscimento maggiore alla Settimana Internazionale della Critica al 68° Festival di Cannes col toccante remake de “La patota” di Daniel Tinayre, racconto di un uomo che lascia la sua città per andare a insegnare in uno sperduto paese dove era stato vittima di uno stupro, sempre di violenza e di reazioni in nome della vita parlava il vincitore dello scorso anno di questa stessa sezione del Festival, l’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy con “The Tribe” che da giovedì sarà al cinema.
Qui il disagio diventa opportunità, la sordità dei protagonisti (reale, non solo quella della fiction) diventa spunto creativo, il linguaggio dei segni fantasia coreografica ma, come il vincitore di quest’anno, anche il suo film parte da una storia di violenza. «Qui si parla di una storia di iniziazione, una storia sul passaggio alla vita adulta in un mondo crudele», spiega l’ucraino.
Il suo film vuole essere un omaggio al cinema muto?
Assolutamente. È un mio sogno di sempre, un film che potesse essere compreso senza nessuna parola pronunciata e che pure è tutto tranne che un film in cui gli eroi rimangono in silenzio.
I suoi protagonisti parlano ma senza parole?
Come nei film muti gli attori comunicano attraverso le azioni e il linguaggio del corpo. Non restano in silenzio perché vogliono comunicare a differenza di quanto avviene in certi film esistenzialisti europei.
Qual è la differenza con un film muto?
Che si va oltre le stilizzazioni del cinema muto perché la lingua dei segni è come una danza, un balletto, una pantomima, il teatro kabuki e non ha nulla di grottesco: è tutto reale.
SILVIA DI PAOLA
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