INTERVISTA
8:31 pm, 23 Novembre 14 calendario

Landini: “La mia sfida al Governo di Renzi”

Di: Redazione Metronews
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Roma “Non entro in politica. Ma faccio politica. Eccome se la faccio. Portando avanti dalle piazze, da dentro la Fiom, un nuovo modello sociale. Mettendo insieme tutti quelli che per vivere devono lavorare. Proponendo al governo più sordo di sempre misure alternative. Un governo che perde consenso, mentre cresce quello intorno alla Fiom e alla Cgil”. Maurizio Landini racconta a Metronews.it il suo progetto. Politico.
Dopo le due iniziative Fiom a Milano e Napoli, il 12 c’è lo sciopero generale. A che serve, in una fase così difficile, portare la gente in piazza?
Portare la gente in piazza, con un governo che non ascolta e un Parlamento che vota la fiducia, è l’unico strumento per far sentire la propria voce. E la grande partecipazione alle nostre iniziative dimostra che in tanti riconoscono in Fiom e Cgil due soggetti per cui vale la pena battersi.
Ogni volta che un governo, di destra o di sinistra, vuole modificare le regole del mercato del lavoro, il sindacato si mette di traverso. Ha ragione Renzi a dire che siete conservatori?
Credo esattamente l’opposto. Noi ci siamo sempre battuti perché i diritti venissero estesi a tutti, e per evitare che la precarietà diventasse una condizione di lavoro e di vita. La conservazione dei diritti è fondamentale. Quando ci si veste di innovazione e poi si riportano i rapporti di lavoro all’800 qualcosa non va. Si riduce il lavoro a pura merce, mettendo tutto sempre più in mano all’impresa. Noi non scioperiamo contro, ma abbiamo proposte chiare.
Vediamole, queste proposte.
Vogliamo estendere lo Statuto dei lavoratori a tutti. I contratti devono ridursi da 46 a cinque. I minimi salariali, l’orario, la malattia, la maternità devono essere garantiti a tutti. A parità di lavoro, ci deve essere parità di diritti e di salario. Cassa integrazione ordinaria e straordinaria devono valere per tutti, con un contributo a carico di tutte le aziende. Proponiamo poi una forma di tutela del reddito più ampia, che sostituisca l’indennità di disoccupazione. Serve una legge sulla rappresentanza, e bisogna cambiare la legge sugli appalti, che è il vero cancro dell’Italia: l’assenza di una legge fa sì che ci sia una destrutturazione totale, con gente che lavora a 3 euro l’ora e nessuno è responsabile. Così la malavita organizzata diventa un datore di lavoro. Per creare lavoro, infine, serve la ripresa degli investimenti, pubblici e privati.
E i soldi per fare tutto questo dove li trovate?
Per sostenere tutto questo bisogna mettere in discussione i vincoli europei, combattere con forza l’evasione fiscale, reintrodurre il reato di falso in bilancio e prevedere il reato di auto riciclaggio. Insomma, noi proponiamo un’altra idea di modello sociale. Puntiamo a unire le persone, non a dividerle.
Cosa c’è che non va nel Jobs Act?
Non va innanzitutto la cancellazione dello Statuto dei lavoratori, non solo per l’articolo 18. Sostituire il reintegro con una mancia, rendere possibile il demansionamento e il controllo a distanza vuol dire cancellare i diritti. Non è vero, poi, che vengono ridotte le 46 forme di lavoro, anzi, se ne aggiungono altre. E non è vero che c’è l’estensione degli ammortizzatori sociali: la cig si restringe, e i nuovi ammortizzatori non varranno per tutti. Infine, si cancella la contrattazione collettiva.
C’è qualcosa invece che vi convince?
No, perché siamo ai titoli, e l’idea che viene fuori è che c’è ancora più spazio per le imprese. Le nostre idee estendono i diritti, qui invece c’è un attacco alla libertà delle persone di organizzarsi collettivamente. Una proposta nostra, quella del tfr in busta paga, è stata recepita in modo distorto e si sta rivelando una beffa, perché si aumentano le tasse, con una doppia presa in giro.
Cosa servirebbe, secondo lei, per far funzionare il mercato del lavoro italiano?
Bisogna partire dall’incentivazione dei contratti di solidarietà e della riduzione dell’orario di lavoro, che in Italia è di 1.800 ore l’anno, mentre la media europea è 1.600. Poi serve una vera riforma delle politiche attive. Dove queste cose funzionano, come in Germania o in Francia, nei centri per l’impiego lavorano tra le 70.000 e le 100.000 persone. In Italia siamo a 13/14.000 addetti, molti dei quali precari. In questi anni c’è stata solo una privatizzazione, senza nessuna politica. Non si può ragionare con la logica della riduzione del danno. Serve un vero diritto alla formazione. Il problema non sono i titoli, insomma, ma le cose che si fanno.
A Milano e Napoli si sono uniti alla Fiom anche i movimenti. State preparando la base elettorale per la nuova sinistra?
Noi facciamo un ragionamento puramente sindacale. Nelle manifestazioni, dal 25 ottobre in poi, c’è di nuovo un modello di autonomia sindacale. Il sindacato ha le sue analisi, e chiede di confrontarsi con il governo. Il sindacato nel fare il suo mestiere fa anche politica, ma questo non vuol dire sostituirsi alla politica. Le manifestazioni unificano tutti coloro che per vivere devono lavorare. Vogliamo costruire un’unità di diritti nel mondo del lavoro, con una discussione su cosa si produce, perché lo si produce e come. Siamo di fronte ad una crisi mai vista. Nulla tornerà come prima. Il modello sociale e produttivo attuale ha generato questa crisi, per questo bisogna pensare a un nuovo modello sociale, a un ruolo pubblico nell’economia. La nostra non è solo una protesta, abbiamo proposte alternative a quelle del governo. Ma il governo rifiuta di confrontarsi con quella che è la maggioranza degli italiani, risponde solo a Confindustria e ai poteri forti.
Lei ha detto che non scende in politica, ma ci credono in pochi…
Noi mettiamo in campo tutto quello che possiamo, poi vediamo come va a finire. Il consenso alle nostre iniziative sta crescendo, mentre cala intorno al governo. La partita finisce se le persone si stancano, ma noi non ci fermiamo. Non è Renzi che decide. Ricordo che c’è un Parlamento eletto con una legge incostituzionale, e un governo non eletto dal popolo. Le leggi si possono impugnare, anche la Fiat pensava di poterci mettere fuori dalle fabbriche, ma non c’è riuscita. E’ decisivo oggi unire tutti quelli che loro vogliono dividere. Le crisi non si risolvono, e queste contraddizioni sono destinate ad esplodere. In questo senso esiste un problema politico di rappresentanza del mondo del lavoro. E il sindacato diventa un soggetto politico.
Quindi lei entra in politica…
Mi viene da ridere… Sono sei anni che lo dico: non entro in politica. Loro sono abituati a non dire la verità, io no. C’è un vuoto da riempire, lo faccia qualcun altro, il mio problema oggi non è questo. Un governo così sordo al sindacato non c’era mai stato. Si porta avanti un’idea di società all’americana, che non c’entra nulla con la nostra storia. Ripeto, noi la partita ce la giochiamo tutta, vediamo come va a finire.
Sabato Renzi ha spiegato in una lettera a “Repubblica” la sua idea di sinistra. Le piace?
Siamo a un punto in cui non dobbiamo leggere quello che uno dice, ma guardare quello che uno fa. La cancellazione dello Statuto dei lavoratori non mi sembra di sinistra. Una vera lotta all’evasione, alla corruzione è di sinistra, la ricerca di un nuovo modello sociale è di sinistra. Sacconi e Alfano sono di sinistra? E il Patto del Nazareno?
Se è vero che non scende in politica, qual è il suo prossimo obiettivo, la guida della Cgil?
No, il mio obiettivo è portare a termine il mio mandato, che dura ancora oltre tre anni. È un’era in una fase come questa… Voglio dare il mio contributo da qui, anche per rafforzare il sindacato.
A proposito: come deve cambiare il sindacato italiano?
Serve intanto maggiore democrazia nel mondo sindacale. Oggi ce n’è poca. Oggi i lavoratori non possono votare liberamente su quello che li riguarda. Per questo serve una legge sulla rappresentanza, per fa sì che possano decidere. Oggi in Italia esistono oltre 300 contratti nazionali di lavoro, ma molte forme di lavoro non sono tutelate in questi contratti. Bisogna ridurre il numero dei contratti, e includervi tutte le forme di lavoro. Attenzione, però: la crisi di rappresentanza non riguarda solo il sindacato, ma anche la politica e le imprese. Basta pensare che la Fiat è uscita da Confindustria e non applica il contratto nazionale.
La Cisl non ha aderito allo sciopero generale. Sindacati ancora una volta divisi. Cosa direbbe alla Furlan per farle cambiare idea?
Le direi di valutare quello che sta succedendo. Nelle fabbriche sia il 14 che il 21 novembre hanno scioperato anche gli iscritti alla Cisl e i non iscritti al sindacato. Le direi di ascoltare tutto questo, e di cogliere l’attacco che è in corso all’esistenza stessa del sindacato confederale.
MICHELE CAROPRESO

23 Novembre 2014
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