La fila, nuova immagine di questa pandemia
Posteggio fuori dal mio ospedale di riferimento, con la mia bella impegnativa per un esame del sangue di routine.
Vedo una fila che parte dal lontano ingresso e si allunga fin sotto la pioggia, supera il parcheggio delle auto, sfocia sul marciapiede. Faccio uno stupido e inutile conteggio approssimativo sul quanti sono e quanto tempo, e decido di tornare indietro.
Per fortuna commento sconsolato la mia rinuncia, perchè da sotto un ombrello una signora mi informa che per gli esami e le visite di sempre (quelle del tempo di pace) c’è un’altra fila, di fianco, molto più corta. La ringrazio tanto. La mia fila è di due persone, e quasi vergognandomi del privilegio mi faccio sparare in fronte dal sanitario in total white. Vado alla mia sala, tocco per il numerino, mi siedo nel posto possibile, uno su tre, e aspetto il mio turno sbirciando i due monitor con la sequenza di codici. E penso a quando toccherà anche a me fare quella fila lì, dei tamponi. Che mi spaventa come il Covid.
Perché è la nuova immagine di questa pandemia. Una fila che arriva tardi, male, in affanno. Con una fetta di italiani che è passata dal canto dell’inno al balconcino, col core in mano, a varie disperazioni, d’azione e di pensiero: sbracare, minimizzare, predicare, cagarsi addosso, negare. L’ultimo verbo farebbe ridere, se non avesse svariati adepti.
Questo gommino è un terrorista imprendibile. Non ha obiettivi specifici: dal paranoico al cialtronissimo, per lui siamo tutti Casa. E anche il più grande dei pirla dovrebbe capire che serve quella roba che si potrebbe stancamente dire Unità Nazionale. Sia chiaro: non ce n’è uno che non abbia fatto o detto cazzate monumentali. E il “non fatto” è lampante e fa prudere le mani.
Ma tutto questo sta scivolando nell’ultimo verbo, l’irreversibile: odiare. Ognuno il suo capro espiatorio, la sua bandiera stracciata e ignorante. Non possiamo permettercelo. Non dobbiamo.
MAURIZIO BARUFFALDI
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